A un certo punto sembrava che tutto si mettesse per il verso giusto, o forse per il verso sbagliato, come dicevano tanti, ma su questo è difficile dare un giudizio definitivo, ognuno potrà giudicarlo secondo il proprio pensiero e i propri convincimenti. Il fatto, inequivocabile, è che al lavoro le cose si stavano mettendo sempre peggio, ma questo, sempre per lo stesso discorso di prima, qualcuno potrebbe vederlo da un altro punto di vista e considerarlo un bene, e io sono tra quelli, perché alla fine mi ha aiutato a trovare il coraggio per fare il grande passo: lasciare il lavoro, rinunciare una volta per tutte al “posto fisso”.
Nello stesso periodo scadeva il programma della raccolta miglia con la compagnia aerea, dovevo consumare tutti i punti accumulati per anni, altrimenti li avrei persi, e quando ho controllato ho visto che… beh, ne avevo abbastanza per fare il giro intorno al mondo!
Il “round the world ticket” che avevo a disposizione consisteva in un unico biglietto per compiere tutto il giro del mondo nell’arco di un anno, con un massimo di sei tappe. Conoscevo bene il sistema perché tante volte avevo accarezzato l’idea di farlo, e poi avevo anche sperato di vincere quel biglietto con il concorso spagnolo promosso da eDreams a cui avevo partecipato, insomma, era uno di quei desideri in vita da tempo e rimasti ancora incompiuti. Ora quel biglietto mi veniva servito su un piatto d’argento: avrei pagato solo le tasse aeroportuali, considerando il valore del biglietto mi costava una sciocchezza. Però, per poter fare il giro del mondo, per sfruttare quella grande occasione, avrei dovuto prima lasciare il lavoro.
Ecco. Adesso, con qualche elemento in più, dovrebbe essere molto più facile dare un senso alla controversa affermazione iniziale.
S’incastrava tutto quasi perfettamente, per tempi e modi, l’unica pecca era che il biglietto doveva essere emesso entro i primi giorni di luglio, e io, per una serie di motivi, non potevo lasciare il lavoro prima della fine dell’anno, perciò il viaggio non poteva che iniziare a gennaio 2014. Perdevo sei mesi di viaggio, ma ne rimanevano altri sei, era comunque un sogno che si avverava.
Ho emesso il biglietto, e poi mi sono preoccupato di sistemare tutto il resto.
Quando ormai le cose erano fatte, e ho cominciato a parlarne in giro, in tanti si sono incuriositi per il bagaglio: che cosa mi sarei portato per stare fuori sei mesi?
La stessa domanda me l’ero già posta anch’io, non ero mai stato fuori più di un mese e stavolta, per un tempo così lungo, dovevo ragionarci bene.
Solitamente, però, me l’ero sempre cavata con uno zaino abbastanza leggero, portandomi solo lo stretto necessario e lavando la roba quando serviva: anche per l’Islanda, dov’era più freddo, alla fine il peso che avevo portato sulle spalle era stato accettabile.
La conclusione è stata rapida: sei mesi sono un periodo lungo, ma in fondo non sono altro che sei volte un mese, perciò potevo tranquillamente portare con me il solito bagaglio, bastava solo fare qualche bucato in più. Se per caso, poi, mi fosse servita una cosa che non avevo portato, potevo sempre comprarla al momento giusto: non avevo spazio per cose che “forse” potevano essere “utili”, dovevo prendere solo quello che “sicuramente” sarebbe stato “necessario”.
Sarei stato sia in posti caldi che in posti freddi, ci volevano un paio di cose un più pesanti, ma senza esagerare, alle brutte le avrei messe una sopra l’altra. Poi avrei cercato di prendere soprattutto cose vecchie, così, quando avessi cambiato clima, se qualcosa pensavo di non usarla più, avrei potuto buttarla senza grossi problemi, e io, prima di buttare una cosa, di problemi me ne faccio ben più della media. Inoltre, con tanti voli da prendere e innumerevoli posti diversi in cui dormire, anche il rischio di perdere qualcosa, se non l’intero bagaglio, non era da sottovalutare, e anche per questo era meglio avere cose di cui potersi disfare a cuor leggero.
Per i più curiosi, alla fine mi sono portato:
Tre paia di pantaloni lunghi, uno di jeans non troppo pesanti, uno di tela leggera (qualche volta indispensabili sia di giorno, per ripararsi dal sole troppo forte, sia di sera, per difendersi dalle zanzare) e un altro paio, utilissimi, che diventano corti aprendo una zip, tre paia di pantaloni corti, tre canottiere, una dozzina di magliette, di cui un paio più pesanti e un paio leggere ma a maniche lunghe (come per i pantaloni, per scongiurare ustioni o pizzichi), una sottomaglia termica a maniche lunghe, due felpe leggere, una giacca di pile pesante, calzini, mutande, costume, un asciugamano in microfibra e un secondo piccolo di emergenza, un k-way per la pioggia, un paio di scarpe comode (che spero di portare il meno possibile) e un paio di ciabatte brasiliane infradito (che, al contrario, spero di togliere solo in casi eccezionali).
Poi c’è la roba per il bagno, per cui cerco sempre confezioni di dimensioni contenute, e uso anche un altro paio di piccoli accorgimenti: il bagno schiuma e la schiuma da barba sono evitabili, la saponetta va benissimo per tutte e due le cose.
Per finire, gli occhialini da piscina, un coltellino, un vecchio cellulare, la macchina fotografica, un i-pod touch per la musica e per collegarmi a internet (piccola ma utile concessione alla tecnologia), un kindle per leggere gli eBooks (pesa meno di un libro e in più, oltre a tutta la narrativa di cui potessi avere fantasia, ho potuto metterci le istruzioni della macchina fotografica, le guide dei paesi che avrei visitato, e volendo ci si possono aggiungere anche i dizionari, oltre a qualsiasi altra cosa mi possa venire in mente durante il viaggio) e, immancabili, una coppia di pratici taccuini per gli appunti, tipo moleskine, che mi erano stati regalati per l’occasione, e un’elegante penna in formato ridottissimo, anche quella un regalo da utilizzare in viaggio.
Quando ho imbarcato lo zaino e l’ho messo sulla bilancia al check-in, il peso era di 10kg. Fuori c’erano la macchina fotografica e quasi tutti i vestiti più pesanti, che ho indossato considerando che era gennaio e che mi sarei fermato prima una notte a Parigi, ma comunque potevo ritenermi soddisfatto. In più, per la notte a Parigi, avevo preso una vecchia giacca di pelle che non usavo ormai da anni, e che avevo deciso di sacrificare per l’occasione lasciandola poi al primo ostello in cui avrei dormito, dove magari avrebbe fatto comodo a qualcuno. Quanto a me, il freddo avrei dovuto ritrovarlo solo quattro mesi più tardi, e lì un giaccone, se serviva, avrei potuto ricomprarmelo.
Poi, tanto per finire la storia della giacca, prima di lasciare il primo ostello in cui ho alloggiato, mi hanno detto che in alcune zone, che contavo di visitare entro qualche settimana, stava addirittura nevicando, perciò alla fine ho deciso di tenerla direttamente per tutto il viaggio, non è comunque un peso enorme.
Ma ora bando alle ciance, veniamo al succo del discorso: il viaggio.
La prima tappa è in Vietnam, a Ho Chi Minh City, la vecchia Saigon. La città si presenta subito così com’è, al naturale, e non è sempre una cosa ovvia.
Se ne percepisce l’autenticità tra i banchi del mercato,
ai lati delle vie, dove gli ambulanti si attrezzano per preparare i noodles,
davanti ai colori degli alberi in fiore in vendita in ogni angolo per l’attesissimo Tet Nguyen Dan, il capodanno vietnamita,
nelle strade, inondate da interminabili file di motorini,
e anche dove forse questo tipo di autenticità non sarebbe poi tanto auspicata, come per le poco avveniristiche reti di telecomunicazione.
Non molto distante c’è il delta del Mekong, con i suoi affascinanti mercati galleggianti,
e con gli abitanti che si dedicano ai loro lavori nelle isole che il fiume forma lungo il suo percorso.
In un piccolo paesino di montagna, vicino Dalat, sono tutti intenti a confezionare gigli per la festa ormai prossima.
Lungo il cammino s’incontrano risaie,
facce espressive che mostrano tutti i segni dalla vita,
e invidiabili panorami.
Passata la frontiera, queste, altrettanto espressive, sono le facce del Laos,
qui i tramonti sul fiume Mekong,
e i bambini che si danno da fare,
come anche gli adulti.
Chi indovina cos’è questo?
Esatto, è il distributore di benzina, ne approfitto per fare il pieno al motorino preso a noleggio,
prima di rimettermi in marcia sulle strade polverose,
dove ognuno si rinfresca come può.
Chi invece non ha un motorino, usa i mezzi pubblici.
I giochi da fare per i bambini non mancano, se ci si accontenta di quello che si ha, che può essere anche una montagnola di terra.
Qualche anno dopo magari serve anche un pallone, ma il concetto rimane lo stesso.
Non tutti, però, hanno la fortuna di poter passare il tempo a giocare,
o a godersi una scodella di noodles,
per qualcuno c’è da lavorare.
Qualcun altro lavora, ma pare che stia giocando.
Torno in Vietnam da nord, passando per le montagne, e arrivo appena in tempo. Appena in tempo per rubare questa scena.
Poco distante c’è la coloratissima Sapa, con le sue coloratissime abitanti,
e con le inconfondibili coltivazioni a terrazza, che in questa stagione sono molto meno verdi di quanto si veda sulle cartoline,
ma restano lo stesso un gran bello spettacolo.
A dare un contributo ulteriore al fascino di questo posto, ci sono anche le piccole cose di tutti i giorni, come dare una sciacquata alla motocicletta.
E infine, vicino ad Hanoi, l’attrazione più rinomata,
con i suoi villaggi galleggianti
e gli abitanti che portano le loro mercanzie ai turisti,
con i suoi colori suggestivi
e i non meno suggestivi frequentatori,
e non è un caso che, quando sono state votate in tutto il mondo le sette meraviglie della natura, una delle scelte sia ricaduta qui, sulla baia di Ha Long.