Il motivo principe del mio viaggio in Argentina mi aspettava alle ore 15 del 16 Gennaio a González Catán, a circa un’ora di autobus da Buenos Aires. Il motivo principe del mio viaggio aveva sedici anni compiuti da poco, due occhi marroni intensi che esprimevano ancora la sua tenerezza di bambina, e i capelli scuri, lunghi e riccioluti. Aspettavo da tempo l’occasione per andare a trovarla: l’avevo vista solo in fotografia, avevo ricevuto la sua foto per posta insieme a tutti i suoi dati quando, un paio d’anni prima, avevo iniziato il sostegno a distanza tramite l’AVSI, l’associazione italiana che curava il progetto. Ogni tanto arrivavano aggiornamenti sulla pagella scolastica, notizie sulla sua famiglia e su tutte le attività nelle quali s’impegnava; lei, invece, di me conosceva soltanto il nome, non aveva fotografie, né sapeva ancora chi fossi o cosa facessi.
L’attesa per l’incontro mi aveva reso ansioso e impaziente per l’intera mattinata, alla fine della quale, dopo aver mangiato un boccone, ho finalmente preso l’autobus per raggiungerla: il tragitto tagliava tutto il centro fino ad arrivare su enormi stradoni che uscendo dalla città attraversavano prima i quartieri di periferia e poi fatiscenti villaggi cresciuti intorno a malandati viali in terra battuta. Lei, Camila, mi attendeva in uno di questi, nella sede dell’associazione, alla fondazione Obra del Padre Mario; ad accogliermi all’ingresso c’era Julieta, una delle ragazze che lavorava nell’organizzazione, che mi ha subito accompagnato di sopra per le presentazioni.
Camila era molto timida, non parlava quasi mai, anzi, quando le chiedevo qualcosa si schermiva e stringeva la mano di sua sorella, che aveva portato con sé perché assistesse al nostro incontro. Dopo aver fatto conoscenza, guidati da Julieta e da una sua compagna di lavoro, tutti insieme abbiamo visitato l’intero complesso scolastico, le aule nelle quali si tenevano i corsi di cucina, di carpenteria, di telemarketing, e quello di barman e camerieri, che Camila avrebbe intrapreso con il nuovo anno. Terminato il giro mi hanno condotto all’esterno, dove tra la campagna, i giardini e gli ampi cortili, mi hanno mostrato la piccola chiesa, al cui interno l’attenzione era istintivamente catturata da una rassicurante statua di un Cristo in cammino, una posa singolare, carica di vitalità, del tutto diversa dalla consueta immagine statica e addolorata alla quale avevo dovuto fare l’abitudine.
Siamo stati insieme per un paio d’ore, con Camila che dolcemente, mentre il suo sguardo aveva ormai acquistato sicurezza, rispondeva a me e Julieta e ai nostri goffi ma insistenti tentativi di coinvolgerla nelle conversazioni prendendo spunto da ogni pretesto. Il tempo insieme è trascorso veloce, ricco di emozione e della tenerezza per i suoi modi dolci e impacciati e per quel suo viso radioso dell’età in cui i lineamenti ancora da bambina cominciano a combinarsi con le prime espressioni da donna.
Esaurito il tempo a nostra disposizione, con Camila che doveva tornare a casa, mi hanno accompagnato a riprendere l’autobus; anche per me era ora di andare, dovevo tornare di corsa in città per un appuntamento con Yanina, una ragazza conosciuta anni prima in Messico che già da due giorni mi stava scarrozzando in lungo e in largo per le vie e le attrazioni di Buenos Aires.
Sono ripartito il giorno dopo per andare a Puerto Madryn, in Patagonia, che ho raggiunto dopo una decina d’ore di sonno più quattro o cinque d’ininterrotto e avvincente scenario desertico: una sterminata distesa di terra arida con ciuffi ingialliti di piante secche, dove la strada, che pareva una lunga fettuccia di nastro stesa dritta sopra la pianura, era la sola eccezione all’invariabilità del paesaggio, diviso in due metà assolutamente identiche da quell’interminabile striscia nera d’asfalto. Puerto Madryn mostrava subito di racchiudere in sé un piccolo concentrato di tutto ciò che si può trovare in una località balneare attrezzata, semplice e moderna; da lì ogni mattina partivano le comitive di turisti che andavano a visitare la riserva naturale della Penisola di Valdés, con le escursioni pubblicizzate dalle agenzie per ogni angolo della cittadina. Uno dei volantini mi è stato prontamente illustrato anche al mio arrivo in ostello, ed ho potuto comodamente aggregarmi al gruppo che sarebbe partito da lì all’indomani.
Il mini tour prevedeva una prima tappa presso una colonia di leoni marini, poi una visita agli elefanti marini, una ai pinguini, e una pausa di relax di un paio d’ore sulla spiaggia prima dell’ultima sosta in un piccolo centro informativo, dov’era esposto il mastodontico scheletro di un cucciolo di balena, regina incontrastata tra le attrattive della zona per la gran quantità di esemplari che ogni anno venivano a popolare la baia con l’intento di accoppiarsi di fronte al romantico panorama patagonico, cosa che però, sfortunatamente per me, avveniva in un altro periodo dell’anno.
La partenza di buon’ora non mi dava modo di dormire molto, ma quel poco mi è bastato per fare in sogno un bel duetto di tromba con Miles Davis, ottimo preludio a una giornata che già si annunciava entusiasmante; a renderla ancora più piacevole ha poi contribuito la compagnia di Alexandra, una ragazza tedesca che era partita con me dall’ostello.
La riserva era una vastissima area incontaminata all’interno della quale si potevano visitare diversi insediamenti di specie animali che si erano divise il territorio, e ogni anno tornavano a goderselo scegliendolo come dimora per il periodo della riproduzione: vivevano lì nel proprio ambiente naturale, liberi di amoreggiare, corteggiare e accoppiarsi per metter su famiglia, con il solo onere di dover sopportare, loro malgrado, il voyeurismo dei turisti che di tanto in tanto s’affacciavano tra i cespugli a osservarli. Era però ben chiaro che lì erano loro i padroni di casa, e noi gli ospiti.
Abbiamo seguito l’itinerario godendoci lo spettacolo offerto da quell’incantevole oasi naturale, ammirando le tante varietà di uccelli e le vaste colonie di animali che bivaccavano sulle spiagge, qualcuno più schivo, come i numerosi elefanti marini spaparanzati stancamente sul bagnasciuga, qualcun altro più vispo e partecipativo, come i simpaticissimi pinguini che sembrava quasi provassero piacere a starsene lì al centro dell’attenzione con tutta quella gente intorno che li guardava. Lungo la strada c’è capitato di incontrare pure qualche guanaco, una specie d’incrocio tra un lama e un cammello, oltre a uno spassoso armadillo che gongolava nella sua corazza da buffissimo cavaliere del deserto.
Durante la pausa, appena arrivati alla spiaggia, con il vento freddo che dopo aver fatto sentire ininterrottamente la sua presenza ci aveva concesso un momento di tregua, con Ale ci siamo fatti coraggio a vicenda per un avventuroso tuffo tra le gelide correnti antartiche, confortati da un sole intenso che riusciva a scaldare la superficie dell’acqua almeno quel tanto per scongiurare l’assideramento, e siamo rimasti poi a chiacchierare insieme fino al termine della gita.
La sera, provati dal bagno in oceano e dalle camminate, eravamo troppo stanchi per uscire di nuovo, perciò, senza rinunciare a una tipica cenetta argentina, ci siamo cotti un po’ di carne in ostello, accompagnandola con una bottiglia di pregevole e corposo vino rosso di Mendoza. La nostra serata non è finita eccessivamente tardi, anche perché io dovevo svegliarmi presto per fare la cosa più imprevista e straordinaria che potessi trovare in quel paradiso naturale: un’immersione con i leoni marini, “busear con los lobos” come recitavano tutti i cartelli dei centri sub per un’altra delle attività maggiormente pubblicizzate in ogni angolo della zona. A dire il vero, nemmeno immaginavo che si potesse fare un’immersione del genere, né sapevo quanto quegli animali potessero essere amichevoli o mansueti, ma se lo facevano… potevo perdere un’occasione così unica?!?
Sfortunatamente dovevo essere capitato nel più scalcinato dei circoli dove, dopo aver atteso per una mezz’ora che arrivasse l’addetto, mi hanno vestito alla bell’e meglio con la prima muta che hanno trovato e mi hanno accompagnato di corsa presso un altro circolo, il solo che quel giorno organizzava l’uscita per anche conto di tutti gli altri, secondo gli accordi con il parco marino per cui non poteva partire più di una lancia al giorno, a turno, e con un numero limitato di sub. Nello spogliatoio i miei quattro compagni d’immersione stavano selezionando e misurando con cura la muta da indossare, scelta tra il vasto campionario di mute nuove fiammanti, tutte dello stesso colore e modello; intanto io mi ripassavo col dito tutte le parti smozzicate della mia muta d’annata, per controllare che perlomeno non ci fossero buchi da parte a parte nel neoprene.
Mentre raggiungevamo il punto d’immersione con la piccola imbarcazione, i tre accompagnatori ci intrattenevano raccontando aneddoti e curiosità sulle ricchezze di quella riserva, sulle abitudini degli animali che la popolavano, sul loro lavoro di guide tra orche ed elefanti marini, e sulle balene che nella stagione dell’accoppiamento riempivano la baia. «Vengono qui a riprodursi - diceva il più anziano dei tre - e poi, quando tornano in mare aperto, arrivano i giapponesi e le ammazzano», concludendo la frase con una grassa risata amara. Gli ho chiesto se non fosse pericoloso uscire in barca durante il periodo delle balene, ma lui mi ha risposto che nonostante ce ne fosse una quantità ragguardevole, e capitasse spesso di passargli molto vicino anche con imbarcazioni piccole come quella su cui eravamo noi, le balene avevano una tale sensibilità nel muoversi da riuscire ad evitare qualsiasi rischio di collisione: a memoria d’uomo non si era mai verificato nessun incidente.
Appena gettata l’ancora, a poche decine di metri dalla costa, i primi leoni marini hanno cominciato subito ad avvicinarsi incuriositi, noi abbiamo finito di prepararci con il resto dell’attrezzatura che era stata portata per ciascuno di noi, e a quel punto ho scoperto di essere l’unico a cui mancavano i guanti, che il mio circolo scalcinato avrebbe dovuto fornirmi insieme alla muta, e che perciò stare sott’acqua non si sarebbe prospettato troppo confortevole.