L’immersione è stata comunque strepitosa, emozionante, indimenticabile, con le otarie (ho imparato lì che quelle ammaestrate che vediamo giocare a palla nei circhi e che in genere chiamiamo foche in realtà non appartengono affatto alla famiglia delle foche ma sono proprio otarie, o leoni marini) che si avvicinavano senza alcun timore per nuotare insieme, anzi, con la curiosità impertinente di chi vuole sperimentare i nuovi occasionali compagni di giochi, ci giravano intorno cercando di interagire in qualche modo con noi, strusciandosi, mordicchiandoci, in cerca di un contatto fisico, di una carezza. Ogni tanto me ne appariva una davanti agli occhi che morsichettava la maschera, qualcun’altra il cappuccio, e una che tornava insistentemente ad addentarmi il braccio, ma senza stringere, solo per saggiare la consistenza di quel nuovo strano animale con la pelle che sapeva di neoprene. Con le mani nude ho potuto toccarne qualcuna, sentirne il corpo scivolare sulle mie dita, ma volevano essere loro a condurre il gioco, e allora si ritraevano immediatamente e si allontanavano un po’, per poi tornare di nuovo a mordicchiare. Alla lunga, però, il freddo che sentivo alle mani ha avuto il sopravvento, e quando mi hanno proposto di uscire non ho potuto fare altro che seguirli. Il gruppetto di leoni marini sembrava ne fosse dispiaciuto, e mentre risalivamo in barca una dozzina di loro si è sistemata intorno a noi a guardarci andar via, con uno sguardo perplesso e vagamente malinconico che tradiva la voglia di giocare ancora un altro po’, e doveva essere proprio lo stesso sguardo che avevo anch’io.
Intanto in barca, per farci riscaldare e forse anche per riconsolarci, uno degli accompagnatori si stava già cimentando nell’arte di “cebar” mate, preparando l’infuso da servire secondo lo scrupoloso rituale dettato dalla tradizione: dopo aver abilmente separato l’erba dalla polvere e sistemato al suo posto la bombilla a mo’ di cannuccia, lui, il “cebador”, come d’abitudine, avrebbe fatto girare il recipiente tra tutti i partecipanti versando ogni volta, per ciascuno, la giusta quantità di acqua calda. Li ho ringraziati per il mate caldo, e soprattutto per aver avuto l’opportunità di vivere quell’ineguagliabile esperienza, e tutti loro, quasi in coro, mi hanno risposto con quel loro impareggiabile e tipicamente argentino “noooo, por favor!” dal tono di affettuoso rimprovero, quasi come se si sentissero presi in giro.
Tornato a Puerto Madryn, era ormai ora di cominciare a muoversi per l’altro importante motivo che, oltre a Camila, mi aveva spinto a scegliere quel paese: raccogliere qualche informazione per l’acquisto di una barca a vela. Certo, non era una cosa da farsi a breve, ma speravo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, e volevo farmi trovare già pronto. Già da tempo avevo iniziato ad accantonare qualche soldo per potermi permettere un giorno il sogno di vivere in viaggio, da prima ancora delle mie prime folgoranti uscite in barca, prima ancora di scoprire che quel mio sogno da nomade avrebbe potuto avere uno scafo, un timone, e una stiva piena di vele per poter navigare con ogni condizione. Le finanze erano ancora molto scarse, e in mare dovevo farmi tanta esperienza in più, perciò non era una cosa imminente, ma volevo rendermi conto di cosa potesse offrire il mercato argentino, perché avevo saputo che si trovavano barche di ottima fattura a prezzi di gran lunga inferiori a quelli europei, e chi crede nei sogni sa bene quanto serva dar loro una forma per poter trovare la forza e la determinazione che servono a realizzarli.
C’è voluta una discreta camminata per trovare il club nautico, che quel giorno non appariva animato da grande attività: c’erano solamente pochi soci indaffarati a sistemare le proprie barche, e tra questi Sergio, al quale mi sono presentato accennandogli il motivo della mia visita. In realtà, ispirato dal mare che frangeva pochi metri avanti a noi, cercavo di condire il discorso con qualche vaga domanda sulla navigazione in oceano, sperando che oltre alle indicazioni per la barca riuscissi anche a guadagnarmi qualche racconto sulle avventure vissute in quell’area. Avevo un’ammirazione incredibile per lui e per chiunque altro frequentasse quel circolo, non perché ne sapessi qualcosa, ma immaginavo quante difficoltà si potessero incontrare andando in barca a vela in quelle zone, a quelle latitudini, con quei venti, ed ero smanioso di sapere.
Sergio ha mostrato subito una grande disponibilità, e non solo per dovere di ospitalità, anzi, era evidente il piacere che aveva nel raccontare il suo mondo, nel condividerlo con qualcuno che sembrava saperlo apprezzare, e così, per rispondere ai miei primi quesiti, mi ha fatto una panoramica di tutti i modelli migliori della produzione argentina, mi ha dato una rivista con alcuni indirizzi utili, e per finire un po’ dei suoi preziosi consigli, dispensati con una passione e una competenza che incantavano. Poi ha cominciato a raccontarmi delle loro storie di mare, di cosa volesse dire essere marinai in Patagonia, di uscite in condizioni terribili, di regate con più di cinquanta nodi di vento e con raffiche che superavano i sessanta, di gente che da lì era partita per doppiare Capo Horn, o che aveva navigato in Antartide, di marinai che avevano affrontato situazioni estreme, al limite, tra le insidie dei ghiacci, dei venti e delle correnti: in pratica, per chi come me si entusiasma nel vedere una vela spiegata al vento, di eroi.
Da ogni sua parola traspariva tutto il suo amore per il mare, e dai miei occhi doveva certamente trasparire il mio, tanto che alla fine di quei racconti mi ha chiesto se al mattino seguente non avessi voluto fare un giro con lui, un’uscita in mare per provare la sua barca, e il tempo ce l’avevo, perché l’autobus per la nuova partenza mi aspettava soltanto nel primo pomeriggio.
Non riuscivo a crederci, era un’opportunità che non mi ero neppure azzardato a considerare: nell’ascoltare i suoi racconti, già dall’inizio fantasticavo su qualche futura veleggiata lungo quelle coste, ma avere l’occasione di farlo subito, il giorno dopo, era più di quanto potessi sognare, nemmeno la mia fervida fantasia aveva osato spingersi tanto lontano. «Domani mattina», mi aveva detto proprio così: potevo presentarmi lì e uscire con lui a navigare per i mari del sud.
Sono rimasto per qualche attimo incredulo, come se mi aspettassi un repentino ripensamento, ma lui continuava a guardarmi in attesa di una risposta, e quando ho realizzato che era davvero possibile, allora il mio viso s’è fatto raggiante, e gli ho risposto che era la sorpresa più elettrizzante che potessi desiderare per il mio viaggio, che sarei stato onorato di uscire per mare con lui. Ci siamo immediatamente accordati per l’orario, con la speranza che le condizioni fossero buone, considerando che da quelle parti il vento era una presenza costante e che avremmo avuto bisogno di un po’ di fortuna col meteo.
Ho cenato con Alexandra in ostello, poi siamo usciti per bere qualcosa in un locale, prima di chiudere la nottata a passeggiare sul lungomare. Quando siamo rientrati era già piuttosto tardi, c’era però ancora una cosa che mi restava da fare per chiudere in bellezza quell’indimenticabile giornata: tornare in spiaggia per godermi le sensazionali luci dell’alba che nasceva sul mare, una magia che avevo potuto contemplare solo in poche occasioni giacché dalle mie parti, come evidenziava anche Nanni Moretti in Ecce Bombo, al litorale romano non era data facoltà d’esibire tale prodigio; in più mi trovavo in un altro emisfero, dove per me tutto era incredibilmente nuovo e diverso: i colori del cielo a quelle latitudini, così intensi, promettevano di mandare in scena uno spettacolo unico. Sono sceso in spiaggia, e non ho dovuto aspettare molto prima che terminasse quella breve notte d’estate australe: hanno subito cominciato a delinearsi quattro lunghe e sottili strisce di nuvole che occupavano in orizzontale la totalità della visuale, mentre sotto e sopra un cielo di un blu già deciso aspettava insieme a me che il sole salisse sulle spalle del mare a risplendere sull’acqua, davanti a una spiaggia che con la bassa marea s’era fatta grande da far impressione, sembrava non finire mai.
Le tinte si facevano sempre più chiare e definite, mostrando le tonalità più vive e infuocate lungo tutta la striscia sopra la linea dell’orizzonte, ma lo spettacolo vero era ancora più su, e proseguiva dietro, nell’altra metà del cielo, che si era accesa di un blu elettrico talmente intenso che pareva indelebile, come se mai più nessuno avesse potuto cancellarlo.
La mattina, dopo qualche ora di sonno, ho preparato lo zaino in vista della partenza pomeridiana e sono corso al circolo nautico. Sergio stava lì con la sua barca, era contento di vedermi, ma ha immediatamente raffreddato i miei entusiasmi: la giornata era bella, tuttavia si stava alzando un vento robusto, che si sarebbe rinforzato ulteriormente da lì a poco, e non era il caso di uscire con simili condizioni. Ovviamente ero dispiaciuto, ma già quel suo invito del giorno prima era bastato a rendermi felice nell’immaginarmi impavido marinaio in navigazione per i mari del sud, andava bene lo stesso, avevo già solcato quei mari veleggiando con la fantasia, e questo lo dovevo a lui. L’ho ringraziato, e ancora una volta mi sono sentito rispondere quel garbatissimo “nooo, por favor” che sembrava quasi un “dai, smettila” con il quale gli argentini erano soliti schermirsi. Poi Sergio mi ha mostrato il suo gioiello, un’imbarcazione di poco più di cinque metri fornita di tutte le possibili accortezze per poter regolare ogni dettaglio in regata, era affascinante osservare quanta cura le riservasse e la devozione con la quale parlava di lei; io comprendevo e condividevo il suo trasporto, e non mi toglievo dalla mente il pensiero di quanto sarebbe stato bello poterla provare, poi, dopo aver ascoltato tutte le sue spiegazioni e terminato di ammirare quello scafo in ogni suo anfratto più nascosto, ho salutato e li ho lasciati lì, l’uno con l’altra, a scambiarsi tenerezze come due innamorati.
A riconsolarmi per l’occasione perduta ci ha pensato l’ottimo pranzo di pesce al ristorantino del club nautico in compagnia di Alexandra, al termine di una nuova lunga e appassionante chiacchierata con un altro dei marinai che frequentavano il circolo, che ci ha raccontato pure lui di mirabili e seducenti storie di mare, di navigazioni tra tempeste, di incontri con balene, di uscite invernali a dieci gradi sotto zero, di naufragi e di regate nel gelido inverno polare. Altri racconti di mare nel sud estremo del mondo che, al pari di quelli che avevo ascoltato da Sergio e dalle guide sub prima dell’immersione, mi facevano sognare come un bambino al suo primo libro d’avventura.