In un batter d’occhio i due ragazzini della famiglia si sono preparati per accompagnarmi, con i volti dolci e allegri che tradivano l’impaziente voglia di dare il proprio contributo per un lavoro che pareva divertirli molto, e anche dopo, durante il tragitto, tra una chiacchiera e l’altra non perdevano occasione per dare sfoggio della loro abilità.
Da Salta partivano le escursioni per le aree più interessanti della regione; la gita più classica e più rinomata per la sua unicità era un viaggio in treno, uno dei pochi d’Argentina ma tra i più popolari al mondo: il “treno delle nuvole”, un convoglio che si arrampicava tra paesaggi da sogno fino a raggiungere la vertiginosa altitudine di 4200 metri. Malauguratamente in quel periodo il treno non era in funzione e perciò, considerando i pochi giorni che restavano e le tantissime cose che volevo ancora vedere, ho deciso di accordare una nuova piccola concessione a un turismo più organizzato, con la mia terza e ultima escursione di gruppo lungo un’altra delle innumerevoli strade panoramiche dell’Argentina, per visitare la Quebrada de Humahuaca, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità al pari del Parque Nacional Los Glaciares e della Peninsula Valdés che avevo già potuto visitare.
Siamo partiti di buon mattino infilandoci prima tra la lussureggiante vegetazione della fertile vallata che si apriva nel primo tratto appena fuori dalla cittadina, per poi salire fiancheggiando il tragitto del Rio Grande verso un clima più secco, tra miriadi di grandi cactus, ai piedi di splendide montagne rocciose che mutavano per colorazione e per intensità; tali bellezze, variopinte di mille gradazioni e sfumature, avevano le loro espressioni migliori su pareti montuose dai nomi suggestivi come la “montagna dai sette colori” o la “tavolozza del pittore”, dove c’era da rimanere a bocca aperta per accostamenti di tinte e tonalità così armoniose da non poter immaginare autore diverso dalla sapiente mano che li aveva creati, quella della natura.
Di tanto in tanto c’era qualche sosta per lasciar scattare un po’ di foto lungo il cammino. Ecco, una cosa che a volte mi lasciava perplesso e mi dava da pensare era che in prossimità delle soste non dicevano mai di fermarsi per lasciarci godere la vista con tranquillità, con i tempi necessari a riempirsi gli occhi di quegli incredibili e meravigliosi scorci, ma dicevano di sostare lì perché era l’angolo migliore per le foto: forse consideravano che per chi stava sul loro pullmino non fosse importante vedere, bensì documentare, il poter mostrare che si era visto era più importante del guardare… o forse, più semplicemente, ancora una volta ricadevo in quelle mie tare psicologiche che continuavano a minare il mio rapporto con la fotografia.
Facendo tappa in diversi paesini di montagna, ognuno con il suo scenario unico e affascinante, abbiamo proseguito fino a oltrepassare la pietra che segnava il passaggio sul tropico del Capricorno, prima di raggiungere Humahuaca, a poche decine di chilometri dal confine con la Bolivia.
Humahuaca era nota, tra le altre cose, per essere un popolare ritrovo di “fricchettoni”, che giungevano da ogni parte del mondo per una visita di passaggio o per fermarsi a vivere lì, in comuni che si rifacevano al tempo dei figli dei fiori: ne avevo incontrati tanti già negli altri centri della zona, alcuni veri nostalgici di quel periodo, e altri che si atteggiavano a farlo. Questi ultimi sembravano più che altro delle macchiette, grottesche caricature di personaggi rubati all’immaginario collettivo, con la loro maschera da alternativi che stonava sia per l’abbigliamento, che finiva per essere identificabile e ricercato al pari di qualsiasi altra moda, sia per i discorsi che facevano, infarciti di luoghi comuni e banalità.
Bisogna dire però che questo era un atteggiamento che in generale cominciavo a notare sempre più spesso negli ambienti più disparati, e probabilmente ora ci facevo semplicemente più caso, gente che cercava di mascherarsi da qualcosa di facilmente riconoscibile, o di parlare delle cose con l’unico intento di voler stupire, di voler apparire originale, finendo così per risultare fasulla ai limiti del ridicolo. Qui forse sto divagando troppo, ma in quel momento mi rendevo conto di quanto mi annoiasse chi non si presenta per ciò che è, ma per come vorrebbe essere, o peggio ancora per come gli altri vorrebbero che fosse.
Tornando a Humahuaca, un altro dei motivi per il quale era molto conosciuta era il pittoresco carnevale che vi si svolgeva, una particolarissima celebrazione popolare in cui la festa cattolica importata dagli spagnoli si fondeva con i rituali pagani di discendenza indigena, e che ogni anno ne animava le vie con sfilate di vivaci costumi, maschere dai colori sgargianti, e diavoli, la figura più rappresentativa della festa che alla cerimonia d’inizio del carnevale veniva simbolicamente invitata a partecipare alla baldoria e a divertirsi tra la gente.
Scendevano dalle montagne, dai villaggi vicini: una quantità incredibile di persone, in arrivo da tutta la valle e oltre, si ritrovava lì per un’esplosione di gioia collettiva che durava nove giorni e otto notti, ininterrottamente, nei quali i partecipanti si liberavano da ogni inibizione e tra festoni, addobbi e stelle filanti le strade si trasformano in un tripudio sfrenato di canti, balli, follia, sensualità, lussuria, cibo, confusione, eccessi, accompagnati dal ritmo degli strumenti tipici della musica popolare andina e da fiumi e fiumi di chicha, la bevanda alcolica ricavata dal mais che non mancava mai nelle occasioni di festa.
E non so se fosse solo per l’alone di leggenda che si era creato attorno a questo evento, ma qualcuno raccontava che per l’intera durata del carnevale non esistesse nessun principio morale, che si mettessero da parte tutti i legami, fidanzamenti, matrimoni, per formare nuove coppie e abbandonarsi al piacere dei sensi senza alcun controllo: una volta mascherati, infatti, gli uomini si offrivano alle donne con un corteggiamento quasi animalesco, primordiale, esprimendo la loro passione unicamente con balli ed evoluzioni; le donne potevano così scegliere il compagno al quale concedersi e giacere con lui, e questo rituale si ripeteva tutte le notti per tutta la durata della manifestazione. Sembrava poi, com’era facile aspettarsi dopo tanta promiscuità, che esattamente nove mesi dopo il carnevale, con regolarità infallibile, si rilevasse in tutta la zona un aumento vertiginoso delle nascite, tuttavia pare che nessuno se ne lamentasse e che anche i mariti accettassero di buon grado questi figli illegittimi, perché erano i figli della festa, i figli del carnevale.
Alla fine dell’altopiano, prima che i monti riprendessero a scalare il cielo, sorgeva Cachi, un piccolo paesino che offriva tutta la tranquillità di cui avevo bisogno, con i suoi negozietti di artigianato e i suoi ristorantini, che però s’integravano bene e con discrezione in quell’ambiente, nulla a che vedere con il caos turistico che avevo vissuto nelle ultime due sere nella più popolosa e frequentata Salta. Da lì mi sono spedito una cartolina, è una cosa che faccio spesso quando voglio ricordarmi una situazione durante un viaggio, l’impressione di un istante, un’emozione vissuta in una località particolare; è un modo per non dimenticare, quello che mi scrivo di solito è per rivivere qualcosa di speciale anche quando sarò tornato a casa, per ricordare a me stesso quanto sono importanti per me quei momenti e per stimolarmi a pensare già al prossimo viaggio, se mai non lo tenessi sempre a mente e ci fosse ancora bisogno di qualche stimolo in più. Ovviamente non ce n’era bisogno, perché quando il morbo del viaggio s’è ormai insinuato dentro non c’è bisogno di stimolarlo, rispunta fuori da solo, ogni volta, ma quella della cartolina era una specie di mia personale consuetudine alla quale ho sempre tenuto molto, e Cachi, con i cactus giganti che spuntavano ovunque e le insegne stradali in legno di cactus, con i lama che si aggiravano nei cortili dalle case, era il posto perfetto per tutto questo.
Dopo Cachi è stato il turno di San Fernando del Valle de Catamarca, “Catamarca” per gli amici, ancora tra gli scenografici e suggestivi paesaggi naturali del nordovest, dove ho potuto visitare il museo sulle civiltà precolombiane, uno tra i più ricchi d’Argentina nel suo genere, e passeggiare per le vie del centro attorno all’imponente cattedrale di Nuestra Señora del Valle, nel quale era conservata la popolarissima statua della Virgen del Valle, e devo confessare che sono rimasto impressionato, sia per la quantità sia per la giovane età, dalla devozione e la partecipazione dei fedeli, un po’ in contrasto con la generale tendenza alla disaffezione che mi pareva di vedere in Italia nei confronti della chiesa, soprattutto tra i ragazzi.
Da Catamarca ho preso l’ennesimo e ultimo pullman, quello notturno per tornare a Buenos Aires. Per il tempo che avevo avuto a disposizione, avevo fatto un giro notevole, che alla fine aveva sorpreso persino me: da Buenos Aires ero sceso giù fin quasi ai confini con la Terra del Fuoco, poi ero risalito percorrendo tutta la nazione lungo le Ande fino a superare Salta, per poi tornare di nuovo nella capitale… insomma, per cercare di vedere quanto più possibile, alla fine mi sa che ho anche esagerato. Ho calcolato che, sommando la durata di tutti i miei spostamenti, sia di giorno che di notte, delle tre settimane che stavo trascorrendo in Argentina, quasi una intera l’avevo passata sugli autobus!
Restava ormai poco tempo, un po’ con Yanina e un po’ da solo, ho continuato per quanto potessi a girare la città, cominciando dagli enormi viali intorno alla piazza principale, dove, sebbene il traffico non apparisse molto intenso, c’erano i vigili, con i loro fischietti che sembravano richiami per uccelli, che salivano su una specie di pulpito a cinque o sei gradini da terra, ancora più alti dei pizzardoni di Piazza Venezia all’epoca dei primi film di Sordi, per finire a perdermi tra gli stretti vicoli di quartieri più caratteristici e ricchi di fascino d’altri tempi come San Telmo, a lasciarmi conquistare dai colori accesi degli edifici variopinti de La Boca o a farmi rapire dall’atmosfera magica e dalle note di tango nella vibrante zona di Palermo Viejo.
L’ora del rientro si avvicinava inesorabile, ma se in quelle tre settimane l’orologio aveva continuato a segnare sempre le solite ventiquattro ore, la mente pareva averne vissute il doppio, perché in viaggio si ha la sensazione impagabile di vivere tutto il proprio tempo, ogni istante. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, quel tempo non poteva bastarmi, avrei dato chissà cosa per poter rimanere ancora molto, molto di più: c’era ancora così tanto da vedere, non c’era davvero il rischio di stancarsene, le cose belle non stancano mai.
Prima di ripartire c’è stato appena il tempo per sorseggiare un ultimo mate, poi mi sono dovuto rassegnare. Era la fine di un viaggio “barbaro”, come l’avrebbero definito in tono entusiastico gli argentini. Si, “barbaro”, è proprio questa l’espressione che avrebbero usato.