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Brasiliando

Mar, 2004 ~ Lascia un commento ~ Written by admin

    Pant, Pant, Pant… Bene, sembra ci sia tutto, le magliette le ho prese, i libri, spazzolino, dentifricio… mmhhhhmmmm… mumble mumble… non dovrei aver dimenticato niente.

Mi sento un po’ fumetto quando preparo i bagagli per un viaggio, sempre con l’affanno delle cose fatte all’ultimo momento, è un vizio che non mi toglierò mai. Alla fine però lo zaino è pronto, l’orologio indica già le quattro di mattina e la sveglia è per le sette: stavolta non posso proprio permettermi di ritardare. Sveglia, doccia, e via, con il viaggio che è cominciato… 24 ore prima di cominciare!

Puntualissimo, il sabato mattina mi sono presentato all’aeroporto, sono entrato, ho fatto la fila per il check-in, e quando è stato il mio turno ho consegnato bagaglio, biglietto e documento. La ragazza scrutava il biglietto con un’espressione sempre più incerta, e ha chiamato una collega per farlo controllare anche a lei; la seconda ragazza l’ha preso, si sono guardate ancora con aria interrogativa e poi la prima mi ha detto: «Ma le hanno per caso anticipato il volo?» e io: «No, perché? C’è qualche problema?» «Beh, veramente… il suo volo è per domani, 7 Marzo. Ma non l’ha controllato?».

Non sono in grado di ricostruire tutte le tonalità di colori che si sono succedute sulla mia faccia, che credo sia passata dal bianco più pallido a un vivissimo rosso scarlatto; una cosa che invece ho bene chiara in testa, e che penso non potrò mai più scordare, è il gesto di sconforto dell’addetta al check-in, che, mentre la collega mi chiedeva se non avessi controllato il biglietto, scuoteva la testa con le mani sulla faccia, indecisa tra il riso e la disperazione, più o meno lo stesso stato d’animo che si stava insediando in me mentre ripensavo alle folli corse per sistemare tutto prima di partire, alle tre ore scarse di sonno, e a quella situazione a dir poco imbarazzante. In effetti no, non l’avevo controllato: gli ultimi giorni ero stato talmente occupato nei preparativi da aver completamente dimenticato che, benché il proposito iniziale fosse effettivamente di partire il 6, alla fine non avevo trovato nessuna offerta decente per quella data e avevo dovuto ripiegare sul giorno appresso.

L’aeroporto di Fiumicino deve proprio essere il mio teatro preferito per questo genere d’esibizioni: già un’altra volta, in partenza per la Finlandia, mi avevano bloccato al check-in con la carta d’identità scaduta, e avevo dovuto chiamare mia madre perché corresse a portarmi il passaporto; in un accesso di pietà mi hanno fatto passare il borsone come bagaglio a mano, con l’imbarco delle valigie già chiuso da un pezzo e il mio nome che intanto rimbombava dagli altoparlanti per ogni angolo dell’aeroporto. Ma io cosa potevo farci? Era forse colpa mia se qualche illustre genio della burocrazia aveva avuto la brillante pensata di far scadere la mia carta d’identità? Che senso aveva? Se fino a un mese prima il mio documento certificava che quel tale nella foto ero io, dopo un mese potevo forse esser diventato un altro?!?

Misteri burocratici a parte… alla fine, al termine di una corsa forsennata, ero riuscito a salire sull’aereo che era rimasto fermo ad aspettare per diversi minuti, meritandomi il lungo, scrosciante e caldo applauso di tutti i passeggeri. Stavolta non avevo ricevuto applausi, ma almeno avevo offerto a tutto l’aeroporto un altro simpatico aneddoto da raccontare.

    Il giorno seguente, dopo aver letto e riletto, per evitare altre sviste, tutte le parti del biglietto con la dovuta cura, sono arrivato di nuovo all’aeroporto, terrorizzato all’idea di ritrovare all’accettazione la stessa ragazza, che per fortuna non c’era; avevo un giorno in meno per viaggiare, ma in fondo era andata bene lo stesso: quello sbaglio mi aveva permesso di gustare per due volte la tensione e l’emozione della partenza per il Brasile, un’emozione che aveva un valore particolare perché era senza dubbio il mio viaggio più voluto, il più atteso. Gli altri paesi, quelli che avevo visitato fino a quel momento, spesso li avevo scelti senza troppe riflessioni, qualche volta addirittura improvvisando la destinazione direttamente in agenzia, l’importante era solo andare; per alcuni posti avevo però una curiosità speciale, un desiderio più vivo che tenevo gelosamente custodito tra le mie fantasie giramondiste: la voglia di Brasile era lì dentro, alimentata da tante storie che avevo sentito, libri che avevo letto, persone che avevo conosciuto, e da quell’icona romantica e suggestiva che il Brasile offriva di sé e del suo popolo vivace e passionale, che già avevano dato forma a una mia idea, ma era, appunto, solamente un’idea, priva di definizione. Un viaggio avrebbe permesso a quell’idea di prendere vita, di assumere contorni più definiti, di farsi colorare, di assorbire odori, di appropriarsi di suoni e di sapori, di acquisire un movimento, un proprio respiro, di sbocciare e diventare esperienza. Stavo per scoprire finalmente cosa c’era dietro a tanti nomi e a tante immagini su cui avevo fantasticato, stavo per scoprire la terra del samba, della torcida, del carnevale, dei libri di Amado, della capoeira, delle belle donne, delle infinite contaminazioni musicali, quella di Lula, dei movimenti Sem Terra, della foresta amazzonica, il Brasile di Senna, di Falcão, dei cinque titoli mondiali di calcio, e anche quello turistico di Copacabana e del Cristo di Rio.

Avevo un biglietto per Salvador, la prima capitale del Brasile, e la città che forse ancora oggi rappresenta meglio l’anima brasiliana (“O Brasil nasceu aqui”, amano ripetere i bahiani), probabilmente il posto ideale per cominciare e per concludere il mio viaggio. Sono uscito dall’aeroporto che era ormai sera, non c’erano più autobus, e ho dovuto prendere un taxi per arrivare al centro, con il tassista che m’introduceva, sia fisicamente che verbalmente, nella fascinosa capitale dello stato di Bahia, parlandomi dell’identità di Salvador, delle sue ricchezze, della cucina, delle abitudini e del carattere dei bahiani; io intanto cercavo di cogliere qualcosa anche dalle immagini che mi scorrevano accanto mentre entravamo nel cuore della città, dalle facce che vedevo in strada, dalle case, dalle insegne dei negozi, con le vie del centro, già buie e silenziose, che un po’ mi sorprendevano per la loro aria dimessa. Presumibilmente era solo per un naturale rallentamento dei ritmi dopo le grandi feste del carnevale, che era terminato soltanto da pochi giorni, comunque non mi sforzavo di capire: pensare di farsi un’idea di una località come quella già dal primo sguardo era completamente irragionevole, tutto era ancora troppo difficile da decifrare; per ora volevo solo osservare, lasciarmi raccontare le emozioni del Brasile dalle scene che mi camminavano attorno, e tra queste c’erano dei passi di samba che una ragazza ha accennato mentre rideva e scherzava con degli amici, e un vecchietto che se ne stava seduto a canticchiare sul ciglio della strada, due episodi animati da una spontaneità genuina che mi entusiasmava.

    La mattina, un forte sole e il battere a tempo di una percussione entravano nella stanza dalla finestra, proprio vicino al mio letto, a salutare il mio primo risveglio in Brasile. Mi sono affacciato di fuori, e in fondo alla strada c’era un tipo seduto davanti alla porta di una casa, sullo scalino; se ne stava lì a suonare un barattolo e un secchio, riempiendo di ritmo l’intero vicolo. Era il benvenuto della coloratissima capitale bahiana, presentata nelle guide turistiche come la città della musica, che in quel momento pareva risentire ancora della festosa atmosfera carnevalesca che si era respirata pochi giorni prima. A differenza di Rio, con le sue scuole di samba, le sfilate, il suo carnevale da consumare nei locali o nello spettacolare sambodromo, quello di Bahia è un carnevale più popolare, si svolge per le strade ed è di tutti quanti; chi aveva avuto la fortuna di esserci ne diceva meraviglie, erano stati cinque giorni di festa ininterrotta, l’intera città era in strada a ballare senza sosta, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Finito il carnevale tutto era tornato quieto, con un’andatura quasi svogliata, tuttavia l’atmosfera, ancorché stanca, restava contaminata di note musicali, di vibrazioni sonore, del fascino magico e sensuale della festa bahiana, e mentre camminavo ammaliato per gli stretti vicoli del Pelourinho, uno dei quartieri simbolo della città, in qualche modo riuscivo a percepire quell’atmosfera, che rendeva ancora più emozionante la mia scoperta di Salvador, camminare lì era come entrare a piedi in un libro.

Nonostante l’attrazione che quel luogo esercitava su di me, non mi ero ancora ambientato come volevo, dovevo ancora sconfiggere quella componente di diffidenza che emerge tra la baraonda di sentimenti che animano l’arrivo in un paese nuovo: ai primi passi, soprattutto quando si viaggia da soli, ci si sente più vulnerabili, non si hanno riferimenti e c’è il rischio che tutto possa sembrare più sinistro di quanto non sia. Ci vuole tempo per superarlo, per capire com’è la gente, per prendere le misure di una realtà ancora tutta da scoprire, e finché non si compiono questi passi, finché non ci si sbarazza di quelle insicurezze, non si riesce a godere pienamente del viaggio. Dovevo risolvere la cosa al più presto, addentrarmi subito nelle aree più popolari, magari anche un po’ malfamate, per capire bene dov’ero e per liberarmi di tutti gli ammonimenti sul Brasile pericoloso, dei vari “stai attento a dove vai”, “non girare mai da solo”. Dalla città alta, dov’ero io, bastava scender giù in ascensore e di fronte c’era l’ambiente caotico e affollato che faceva al caso mio: il Mercado Modelo, protagonista di tante canzoni che sentivo facendo capoeira, un enorme mercato coperto a due piani che s’affacciava proprio sul porto, un altro dei posti da cui di solito si è messi in guardia, dove s’incontrano le facce meno raccomandabili. Il ricco assortimento di articoli turistici che vivacizzavano il mercato, lo facevano apparire tutt’altro che minaccioso, ma a giudicare da alcuni tipi loschi che si aggiravano, stare lì era quello che mi serviva, ed era anche utile per affrontare subito e nel modo più diretto l’atroce insistenza di tutti quei personaggi, d’entrambi i sessi e di tutte le età, che mi avvicinavano ininterrottamente per chiedere soldi o per cercare di vendersi tutto il vendibile e anche qualcosa di più, e che dall’inizio della giornata avevano deciso di non darmi tregua. Dietro al Mercado Modelo ho anche visto la prima roda di capoeira: un gruppo di una scuola locale era lì fuori a esibirsi cercando di raccogliere un po’ di soldi. Così dopo la roda, il mercato, e una passeggiata tra i pescatori davanti al porto, ero abbastanza tranquillo per tornare alla città alta e godermi le passeggiate in centro con maggior serenità.

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