Sono tornato a cercare Karin e Linda, le due svizzere che avevo conosciuto a Foz: anche loro stavano a Salvador in quei giorni, mi avevano fatto sapere dov’erano alloggiate e già in un paio d’occasioni ero passato a cercarle, ma senza successo, e ogni volta lasciavo alla reception messaggi che puntualmente si scordavano di recapitare. Anche stavolta loro erano già uscite, e di nuovo mi sono raccomandato con il ragazzo dell’ostello, che rispondeva ancora, come sempre, con il gesto d’intesa più inequivocabile e più diffuso in Brasile: il pollice teso verso l’alto, il “positivo”. Non avendo molto altro da fare, sono andato a passeggiare al porto turistico, a fantasticare tra le tante barche legate agli ormeggi, per farmi travolgere dalle sensazioni di libertà assoluta incarnate in uno scafo e una vela: una piccola dimora che ti svincola da tutto, e per portarsela dietro, il mezzo più semplice e affascinante, il vento, che soffiando può condurla ovunque si voglia. Quelle barche possono raccontare tante storie, basta guardarle, e insieme sognare, lasciandosi narrare l’amore per il viaggio, e quello per il fascino imponente del mare, per la sua bellezza, immutabile, sia nella dolcezza delle acque tranquille, quando il suo lento muoversi sembra accarezzare le rive con la tenerezza di una madre che culla il suo bambino, sia nella forza impetuosa delle acque agitate, quando il mare, al pari di un padre burbero e severo, arriva a scatenare tutta la sua potenza per imporre la propria autorità. Una barca era senza dubbio il mezzo più bello per godersi il mirabile scenario della costa bahiana, per vedere i fantastici isolotti, che si alzavano tutt’intorno, senza dover diventare cibo per agenzie, ed era il mezzo migliore per entrare a Salvador, perché anche lei, reginetta della costa, sembrava sporgersi e stendersi nell’acqua proprio per avvicinarsi a salutare i suoi ospiti più graditi, quelli in arrivo dal mare.
Ormai i miei giorni brasiliani stavano per esaurirsi, e cominciavo a pensare alle tante cose in più che avrei voluto vedere: al Pantanal e all’Amazzonia, cui, per il poco tempo a disposizione, avevo dovuto rinunciare da subito, e alla Chapada Diamantina, un altro meraviglioso parco naturale all’interno dello stato di Bahia, un paesaggio verdissimo ricco di corsi d’acqua, cascate, laghi e grotte, che fino all’ultimo avevo sperato di riuscire a visitare; tutto questo lo lasciavo con l’auspicio, un giorno, di tornare, e il sogno più grande era di arrivarci da quel mare che avevo ora davanti a me, e già mi vedevo, al timone della mia imbarcazione, affaticato dalle lunghe e intense navigate ma con gli occhi straripanti di soddisfazione, mentre concludevo la manovra per entrare nel porto.
Rientrando verso l’ostello mi sono intrattenuto a scambiare due parole con un artigiano che aveva piazzato il suo banchetto davanti a un bar: mi aveva fermato mentre uscivo da lì con una birra in mano e aveva insistito perché dessi un’occhiata ai suoi lavori; si chiamava Sergio Braga, aveva un modo di fare simpatico, e ho finito col sedermi vicino a lui per bere insieme un altro paio di birre aspettando l’arrivo di qualche turista a cui poter vendere qualcosa. Siamo stati a chiacchierare per più di un’ora parlando dei brasiliani, del loro carattere, del loro modo di vivere, delle differenze con gli italiani, e dei comportamenti degli italiani in Brasile; le parole vibravano tra le sue risate accattivanti, che gli ingentilivano il viso scarno e lo sguardo furbo, tipico di chi, come lui, deve guadagnarsi da vivere lavorando per la strada.
Si stava facendo tardi e quella sera doveva arrivare in ostello Daniele, che, pur stando in Brasile da qualche mese, con gli impegni della capoeira non era mai uscito da Rio e approfittava della mia presenza per venire a vedere Salvador, perciò ho lasciato Sergio dicendogli che, non appena avessi recuperato il mio amico, sarei passato di nuovo lì per andare poi in centro a bere qualcosa insieme. Daniele però era in ritardo, e in quel momento stava giocando la nazionale di calcio (o futebol, per dirla alla brasiliana), sicché, dopo averlo aspettato in ostello per più di un’ora, sono uscito con Morten, un ragazzo scandinavo, per vedere almeno il secondo tempo della partita: l’idea di vedere in Brasile un incontro di calcio della seleção m’intrigava da morire, era come guardarsi Arancia Meccanica sdraiato sul salotto di casa Kubrick. La partita non ha offerto molti spunti per scatenare la torcida, è stata assolutamente avara d’emozioni, ma ero lo stesso soddisfatto, e al termine mi sono fermato ancora davanti al bar per salutare Sergio Braga e per commentarla con lui, rinnovando poi l’appuntamento a più tardi; in ostello, tuttavia, Daniele non c’era ancora, e nell’attesa mi sono messo a giocare a carte in terrazza con gli altri ragazzi, molti dei quali israeliani. Avevo già incontrato tanti altri israeliani in giro per il Brasile, per loro era una consuetudine fare lunghi viaggi in giro per il mondo: quasi tutti, finito il lungo e duro periodo di leva obbligatoria (tre anni per i ragazzi e due per le ragazze), e dopo aver svolto un qualunque lavoretto precario per raccogliere i soldi necessari, partivano per stare fuori qualche mese, una lunga pausa di riposo prima di tornare a studiare o a cercare un lavoro definitivo, e molti di loro andavano in Sud America, dove la vita non era eccessivamente cara. Mi era capitato di parlarci, e ovviamente il discorso scivolava inevitabilmente sulla politica e sulla situazione israelo-palestinese, mettevamo a confronto le versioni di un percorso storico che, come sempre fa la storia, cambiava profilo secondo l’angolo da cui si volesse guardare, un percorso che però, comunque lo si rileggesse, restava segnato da troppi anni di violenza, di terrore, e di vittime innocenti che continuavano a pagare con le loro vite, da una parte e dall’altra, gli errori di governi incapaci di fermare un vortice di distruzione.
Poco a poco, tutti sono andati a dormire, e alla fine sono rimasto solo io, preoccupato per il mancato arrivo di Daniele, e Noa, una ragazza, anche lei israeliana, che doveva essere un’irriducibile giocatrice di carte o una compassionevole compagna, giacché, pur non dovendo aspettare nessuno, si è trattenuta con me a giocare fino allo stremo. Quando abbiamo posato le carte era già troppo tardi per andare a dormire, e nemmeno avevamo troppo sonno, così ci siamo sdraiati tra i cuscini e siamo rimasti lì in terrazza tutta la notte a parlare di noi, delle nostre esperienze, di viaggi, sogni, passioni, siamo stati lì a dividerci la notte, terminata in una pallida aurora brasiliana che annunciava il mio ultimo giorno prima della partenza. All’ora di colazione s’è affacciato in terrazza il proprietario dell’ostello, e ci ha chiesto se avessimo per caso dormito lì fuori, gli ho risposto che eravamo stati lì tutta la notte ad aspettare il mio amico. «Il tuo amico? - ha replicato in tono sorpreso – Ma ancora non l’hai visto? E’ qui in ostello da ieri sera!». Sono salito in stanza, Daniele era a letto che dormiva beatamente, l’ho svegliato, e insieme abbiamo cercato di ricostruire l’accaduto: lui era arrivato con un po’ di ritardo, aveva chiesto quale fosse la mia stanza ed era andato subito su a vedere se c’ero, con l’occasione aveva scelto il suo letto, sistemato le proprie cose, per riscendere a cercarmi in terrazza solamente in un secondo momento, proprio quando io ero uscito per vedere la partita, e non trovandomi neppure lì era uscito anche lui; rientrando era risalito direttamente in stanza, senza passare per la terrazza, e non vedendomi s’era messo a dormire, fiducioso che prima o poi sarei tornato a dormire anch’io. Ma la cosa più incredibile gli era successa in un locale del Pelourinho dove s’era fermato a bere qualcosa: gli si era avvicinato un tizio ad attaccare bottone per provare a vendergli una collanina o qualunque altra delle chincaglierie che portava con sé, e per animare la conversazione ha iniziato a chiedergli di dove fosse, da quanto tempo stesse lì… Daniele gli ha detto d’essere appena arrivato da Rio per passare un paio di giorni con un amico italiano, che non era ancora riuscito a incontrare, e si è sentito rispondere «Un amico italiano? Ma chi, Riccardo? Tu sei Daniele? E’ da oggi pomeriggio che Riccardo ti sta aspettando!». Era proprio lui, Sergio Braga, e ha lasciato Daniele di sasso: a vedere quella scena veniva da pensare che in quei pochi giorni avessi già familiarizzato con tutta la città.
C’era anche un altro ragazzo in stanza, veniva da Rio e aveva fatto tutto il viaggio con Daniele; cercava un posto per passare le prime notti in attesa di trovarsi una sistemazione, e magari anche un lavoro, per stabilirsi lì, così Daniele gli aveva proposto di venire con lui in ostello. L’abbiamo lasciato dormire e siamo usciti a fare altri giri per la città: pur non avendo dormito, mi sentivo carico d’energia, e non volevo perdermi nemmeno un minuto di quella giornata. Ci siamo fermati ad aspettare un autobus, e dopo aver atteso a lungo, non vedendolo arrivare, abbiamo chiesto alle altre persone in attesa se non ci fosse qualche problema e se fossero sicuri che l’autobus sarebbe passato da lì; ci hanno risposto di starcene tranquilli, che bastava aspettare, prima o poi sarebbe arrivato. Passavano i minuti, aumentava la gente, ma dell’autobus non c’era traccia, e allora mi sono acceso una sigaretta… di solito funzionava sempre: dai tempi della scuola, ogni volta che aspettavo un autobus, non importava da quanto tempo non ne passasse uno, era sufficiente accendermi una sigaretta e nel giro di pochi secondi l’autobus si materializzava, e io dovevo buttare la sigaretta; si andava sul sicuro, benché ci fosse una sigaretta da sacrificare, quando avevo fretta era un metodo infallibile. Stavolta non bastava neanche quella collaudatissima tecnica, l’autobus non veniva e io continuavo a fumare guardando gli altri e cominciando a sbuffare sconsolato, finché non mi sono reso conto dell’assurdo paradosso di quella situazione: io ero in vacanza da circa un mese, l’unico e solo impegno che avevo era andare in aeroporto il giorno appresso, fino allora non avrei avuto nulla d’urgente da fare, avevo tutte le condizioni per starmene tranquillo e rilassato ad aspettare, eppure mi ritrovavo a camminare impaziente su e giù per la fermata, consumando nervosamente la sigaretta a rapide boccate; gli altri che erano lì non so dire che impegni potessero avere, comunque non davano certo l’impressione di essere in vacanza, per loro doveva essere un normalissimo giorno uguale a tutti gli altri, e sicuramente avevano più fretta di quanta non ne avessi io, tuttavia, invece di alterarsi per il ritardo, se ne stavano lì sereni ad aspettare con la loro calma serafica, imperturbabili. Nessuno di loro aveva reazioni stupide e insofferenti come le mie, non erano per nulla turbati da un ritardo che, quand’anche ci fosse stato, non dipendeva da loro e che nessuno di loro poteva evitare: a che serviva innervosirsi? E’ stata una bella lezione, non era la prima volta che vedevo scene simili, ma è stata forse la circostanza che meglio di tutte mi ha fatto percepire l’enorme distanza tra i comportamenti e le reazioni di noi europei e quelli della maggior parte dei sudamericani, e ho realizzato quanto i nostri ritmi forsennati ci portino ad agitarci per sciocchezze che non ne avrebbero motivo, impedendoci di godere appieno i momenti di tranquillità per la nostra folle mania di fare, di correre, di avere fretta anche quando non ce n’è alcun bisogno.