La mattina è volata, e il pomeriggio mi sono voluto concedere un po’ di shopping, volevo riportare a casa qualcosa di brasiliano, di quelle cose coloratissime che usano loro per vestire, e dopo aver fatto visita a diversi negozi sono tornato in ostello, entusiasta come un cercatore d’oro con la sua pepita, con una maglietta così appariscente che nemmeno i più spregiudicati temerari di Salvador avrebbero osato tanto: un colore tra il giallo e il verde fosforescente, talmente acceso che si faceva fatica a guardarlo fisso. Appena rientrati il proprietario dell’ostello ci ha detto di controllare subito il nostro bagaglio: gli era sembrato d’aver visto il ragazzo di Rio, che aveva appena lasciato l’ostello, calare qualcosa dalla finestra della nostra stanza, se ci fosse mancato qualcosa avrebbe subito preso la moto e gli sarebbe corso dietro, magari faceva ancora in tempo a bloccarlo. I bagagli erano in ordine, non davano l’idea d’esser stati aperti, a Daniele pareva ci fosse tutto, e anch’io, trovando i soldi che avevo lasciato in una tasca, ho escluso che avesse preso qualcosa; più tardi Daniele mi ha raccontato che già la sera prima quel ragazzo era stato accolto con molta diffidenza, era riuscito a entrare soltanto perché erano venuti insieme, e non capivamo il motivo di tanto sospetto in un ambiente che per noi stranieri si mostrava così accogliente e libero.
La sera, con Daniele e Morten, ho fatto l’ultimo tentativo per rivedere Karin e Linda, anche questa volta a vuoto perché erano già partite, e scherzando con la ragazza che era alla reception ho esternato le mie rimostranze: dopo tutte le volte che ero passato a cercarle e tutti i messaggi che avevo lasciato, le avevano fatte andar via senza che fossimo riusciti a rivederci, e adesso per colpa loro – la rimbrottavo per gioco – una splendida amicizia che stava sbocciando proprio lì in Brasile rischiava di finire sul nascere, chissà quando mai avrei riavuto l’opportunità di incontrarle di nuovo. Lei mi ha chiesto di dove fossero le mie amiche, e sentendo che venivano dalla Svizzera s’è messa a ridere: «Qual è il problema? Italia e Svizzera sono vicine, potete benissimo vedervi lì». A pensarci bene, non aveva torto: è assurdo come la Svizzera mi apparisse tanto lontana da Roma, quando in Brasile, in un mese, avevo percorso migliaia di chilometri in pullman, e m’era parso tutto vicino, tutto a portata di mano.
Subito dopo, tramite un’agenzia turistica, siamo andati in una casa di una zona popolare per assistere a una cerimonia di candomblè, un altro tassello del fondamentale contributo dell’Africa in quella straordinaria mescolanza che ha formato la cultura brasiliana, in modo particolare nello stato di Bahia, dove tutto, dai sapori della cucina ai ritmi della musica, passando, appunto, per la religione, tradisce l’assoluta predominanza dell’influenza africana. Accompagnati dai ritmi delle percussioni, i sacerdoti cominciavano la lunga celebrazione cantando e danzando per richiamare ciascuno il proprio orixà (le divinità che rappresentano le forze naturali), fino a raggiungere uno stato di trance e a impersonare gli orixàs stessi, mangiando, bevendo, fumando o danzando secondo le caratteristiche, le abitudini (molto terrene) e i vizi di ognuno di essi, per arrivare poi al momento topico: la trasmissione a tutti i partecipanti dell’axè, l’energia vitale. Era tutto molto interessante da vedere, eppure, il solo fatto che io stessi lì a prendere parte a quel rituale, e che con me ci fosse qualche decina d’altri turisti, mi sembrava che snaturasse di per sé il significato di quella cerimonia: pur non essendo credente, ho sempre avuto un grande rispetto per le religioni, e trovo che qualsiasi rituale che abbia una qualche sacralità non debba essere recitato davanti a un pubblico di turisti che, non conoscendo e non sentendo propria quella religione, non possono riuscire a coglierne l’elemento spirituale, e la vivono come qualsiasi altro spettacolo folcloristico per cui hanno pagato un biglietto, come una qualunque alternativa a una serata al teatro.
Abbiamo proseguito la serata tra il Pelourinho e Barra, dove però non c’era una gran vita: l’unica emozione che ci ha ravvivato la nottata (che avrei evitato volentieri visto che, soprattutto nei paesi più poveri, non si sa mai cosa doversi aspettare dai poliziotti) è stata la minuziosa perquisizione che ci hanno riservato a un posto di blocco, dove hanno fermato il taxi che ci stava riportando verso l’ostello; passata anche quella, verso le quattro di mattina, quando oramai temevo di dover passare la seconda notte in bianco consecutiva, finalmente siamo andati a dormire. E’ arrivato appresso, inesorabile, il giorno della partenza. Dovevo ancora fare qualche acquisto, per poi impiegare il resto della mattinata con Daniele a provare la tavola da surf che si era portato da Rio: avevamo sia la tavola sia il luogo ideale per usarla, era un’occasione imperdibile per sperimentare un’attività che mi aveva sempre incuriosito. Come succede immancabilmente l’ultimo giorno, tuttavia, i piani sono saltati, e ho dovuto rinviare il mio battesimo del surf, ma sono riuscito perlomeno a tornare con le cose che mi ero ripromesso di comprare per la capoeira: un bellissimo berimbau (viola, da accompagnare al medio che avevo preso già) e un pandeiro (una specie di tamburello in pelle) presi al negozio di Mestre Lua, più un paio di abadá (i pantaloni che si usano nel gioco) che invece ho comprato in un piccolo negozio di souvenir vicino all’ostello, per tener fede alla parola data alla ragazza che ci lavorava e che ogni volta m’invitava a entrare con un tenero sorriso. Per il pranzo, Noa e gli altri ragazzi israeliani ci hanno invitato a dividere con loro il pasto cinese che avevano ordinato: era molto lontano dal tradizionalissimo piatto brasiliano che avevo immaginato come ultimo banchetto per il mio viaggio, ma, come ho già avuto modo di chiarire, ho grosse difficoltà nel dire di no all’offerta di un piatto messo sulla tavola, e devo dire che era anche piuttosto appetitoso, non ho avuto di che pentirmi. Appena finito di mangiare sono corso a fare i bagagli, e ho realizzato, disgraziatamente troppo tardi, che il proprietario dell’ostello aveva tutte le ragioni d’essere diffidente verso il ragazzo di Rio: sia a me che a Daniele erano sparite le macchinette fotografiche! Avevo perso tutte le foto di Foz, che erano la maggior parte, e anche parecchie altre che avevo fatto nel resto del viaggio, per non parlare della macchinetta, alla quale tenevo particolarmente; ci sono rimasto malissimo: avevo preso in considerazione la possibilità che potessero rubarmi qualcosa, ma ormai credevo d’averla scampata, non pensavo che mi succedesse proprio l’ultimo giorno. Sempre più affranto, un po’ per la partenza, un po’ per la macchinetta rubata, ho dovuto affrontare anche un altro dispiacere: abbandonare le ciabatte per tornare a costringere i piedi dentro un paio di scarpe, che avevo tolto con immenso sollievo quasi un mese prima, appena arrivato in Brasile, e non avevo più rimesso, tranne che per qualche ora sull’aereo che da Salvador mi aveva portato a São Paulo. Adesso era proprio finita: ho salutato tutti e mi sono avviato verso la fermata, a prendere l’autobus per l’aeroporto.
Con l’autobus sono passato ancora una volta sulla costa, a Barra, e ho potuto dare un altro sguardo e un saluto d’arrivederci a quelle strade, a quelle facce, alle fortezze che si susseguivano sul litorale, che da ogni piccolo promontorio dominavano l’incantevole mare, e alle barche a vela che, eleganti, scivolavano sull’acqua in lontananza, verso l’orizzonte. Ancora qualche ora, il tempo di sbrigare le pratiche per l’imbarco, ed è arrivato il momento che paventavo da giorni: la punta dell’aereo si è sollevata da terra, nelle orecchie rombava tutta la potenza dei motori, e nella pancia sentivo la sensazione fisica del distacco, sia per l’aereo, che si stava alzando, sia perché mi stavo allontanando da una terra che per tanti motivi mi sarebbe rimasta sempre particolarmente nel cuore.
Il rientro è stato graduale, o almeno così lo immaginavo: non avendo trovato posto per quel giorno sul volo Madrid-Roma, dovevo passare la notte a Madrid e ripartire il giorno seguente, avevo quindi una nuova tappa per il mio viaggio, una specie della sosta di decompressione che fanno i sub a pochi metri dalla superficie, prima di riemergere, per evitare al fisico un ritorno troppo brusco; per di più in Spagna c’ero stato altre volte, e gli spagnoli mi piacevano, mi ero sempre ambientato bene e subito, e non dubitavo che quel giorno in più sarebbe stato pienamente goduto. Eppure stavolta, tornando da Salvador, sembrava tutto diverso, non sentivo quasi più le emozioni del viaggio, era come se fossi già tornato a casa: ero comunque in Europa, e le differenze con il Brasile m’erano subito parse troppe, e troppo grandi… Qui andavano tutti di corsa, era pazzesco vedere tutte quelle persone in continuo movimento, come una colonia di formichine. C’era qualcuno che parlava, altri che buttavano un’occhiata alle vetrine, chi era solo, chi in compagnia, ma tutti quanti a muoversi, tutti a camminare; non c’era nessuno che provava a fermarsi, anche solo per un momento, soltanto per osservare, per tirarsi fuori da quello strano continuo brulichio ed entrare in quei fantastici ritmi lenti che in Brasile erano così naturali, non c’era nessuno che apriva la porta di casa e si sedeva sul gradino, in strada, a canticchiare qualcosa, nessuno che si comportasse in modo diverso dagli altri. E’ stata l’unica volta, da quando ero partito da Roma un mese prima, che passavo l’intera giornata senza scambiare una parola con nessuno, e non credo che fosse una casualità.
La mattina dopo, sull’aereo per Roma, cominciavo già a ripercorrere tutto il mio viaggio, a passeggiare tra i ricordi e a rendermi conto di aver riportato dal Brasile molto più di quanto non avessi immaginato prima di partire, quando già le aspettative erano enormi; chiudevo gli occhi e mi scorrevano in testa tutte le immagini di un intero mese trascorso brasiliando, quelle immagini nitide di una bellezza che ti entra nel cervello e non vuole uscirne più. Ho iniziato a comprendere fino in fondo, sentendolo sulla pelle, quello che forse è il più brasiliano dei sentimenti, e ciò che provavo doveva essere ben visibile anche agli altri. L’ho capito nel modo più chiaro quando, due mesi dopo, ho fatto il batizado di capoeira, la cerimonia d’iniziazione in cui il Mestre consegna il cordão (la corda) e assegna un apelido (il soprannome) a ciascun nuovo capoeirista, e mi è stato svelato l’apelido che già da tempo, proprio dopo il mio ritorno dal Brasile, avevano scelto per me: il mio nome era “Saudade”.