Ho ripreso a percorrere le vie del Pelourinho, rapito dai suoi irresistibili scorci tra bar, locali e case in stile coloniale, passando davanti a chiese (in tutta Salvador se ne contano quasi quattrocento), a variopinti negozietti d’arte e prodotti locali esposti in bella mostra per i turisti, e davanti a tanti banchetti dove le donnone bahiane, vestite dei loro caratteristici abiti di pizzo bianco, vendevano acarajés, una specie di polpettine fatte con crema di fagioli e cipolla, ripiene di gamberi o carne, con dentro tanto, tanto peperoncino, il tutto fritto nell’olio dendè, un olio di palma saporitissimo e base primaria per i piatti tipici della regione.
Girovagavo diviso tra la gioia di tante novità e lo sfiancamento per la petulanza di quanti insistevano incessantemente a martellare me e ogni altro turista di passaggio per fargli scucire qualche moneta, gente che probabilmente i turisti nemmeno li sopportava, e ho iniziato così a sviluppare uno sfrenato desiderio di “naturalizzazione brasiliana”. Si trattava di un mio personale processo di naturalizzazione che aveva poco a che vedere con procedure amministrative, né prevedeva rilascio di documenti, era solo una condizione fisica, o, meglio, una condizione psicologica, che avrebbe avuto però una sua incidenza sull’aspetto fisico (almeno nelle mie convinzioni): l’obiettivo era arrivare a capire quella nazione e integrarmi totalmente con i suoi spazi e con la sua gente, tanto da finire col sentirmi anch’io brasiliano come loro, il che mi avrebbe portato, e di questo ero più che sicuro, a comportarmi con una tale naturalezza da far credere anche agli altri che fossi davvero brasiliano. Era abbastanza evidente che le regioni del nordest fossero quasi proibitive per questa mia ambizione: in quelle zone erano praticamente tutti neri, e per quanto mi sforzassi di entrare nella parte, la mia pelle continuava ad apparire irrimediabilmente bianca, e neppure qualche giorno di sole avrebbe fatto miracoli. Nel Pelourinho rimanevo facilmente individuabile, era difficile sfuggire: se sei bianco, allora sei un turista; nel sud, però, dalle parti di São Paulo, avrei avuto sicuramente maggiori possibilità.
Il bahiano meno scuro che mi sia capitato di vedere nel Pelourinho, l’ho visto in fotografia: era Jorge Amado, lo scrittore che di quel quartiere è riuscito a raccontare tutto, dai colori del carnevale alle emozioni degli abitanti, dalle tradizioni religiose fino ai profumi e ai sapori della cucina, era stato gli occhi e la voce di quella terra di stravaganze, e nella fondazione intitolata a lui, oltre alle mostre di artisti locali, erano esposte molte sue foto. Tra queste ce n’era una che lo ritraeva con Pablo Neruda e Diego Rivera nella casa di Isla Negra, la magnifica abitazione che Neruda aveva fatto costruire sul mare a pochi chilometri da Valparaiso, in Cile; era una foto bellissima, tre personaggi straordinari, tre indiscussi punti di riferimento della cultura mondiale, tre simboli che avevano saputo rappresentare le identità e le diverse anime dei propri paesi, e mi ha fatto effetto pensare di aver vissuto, in ciascuna delle loro terre, la magnifica e imponente presenza di quei tre maestri: ero stato nel Messico di Rivera, dove a Città del Messico avevo visto i suoi murales, avevo visitato la casa di Neruda in Cile (proprio quella di Isla Negra), e adesso stavo lì, nel bel mezzo del Pelourinho, a visitare la fondazione Jorge Amado.
Dopo aver girato ancora per la città alta sono entrato in un centro commerciale, e lì ho scoperto con grande sorpresa che di bahiani bianchi, anche se pochi, ce ne sarebbero pure stati, ma si rintanavano tutti lì dentro, il che non cambiava molto la sostanza del precedente sillogismo, perché, a meno che non mi ci rinchiudessi anch’io, rimanevo lo stesso facilmente individuabile: se sei bianco ma sei fuori da un centro commerciale, allora sei un turista.
Quel pomeriggio mi ha riservato anche un’altra lieta sorpresa: mi sono imbattuto in una rumorosissima manifestazione di donne che sfilavano per la ricorrenza dell’8 Marzo, per rivendicare il pieno rispetto dei loro diritti, e anche la festa delle donne, nello stato di Bahia, non poteva che essere scandita dal ritmo del samba. Il corteo, accompagnato da una nutrita sezione di percussioni, passava festoso per le vie del centro, e tra le signore che si affacciavano alle finestre per applaudire, qualcuna dava il suo contributo scatenandosi in conturbanti passi di samba sul balcone, e poi ammiccava divertita alla folla, ricevendo in cambio una meritata ovazione.
Rigenerato da una nottata riposante e da un’apprezzabile colazione in ostello, e dopo aver piacevolmente diviso chiacchiere, esperienze e sogni di nomadismo con una giornalista norvegese, sono uscito con lei e con un altro ragazzo svizzero per vedere Barra, un elegante quartiere proteso sul mare. Lì ho avuto il primo incontro con quei simboli che rappresentavano il mio immaginario tropicale, un approccio nemmeno troppo timido, anzi piuttosto sfrontato: appena scesi dall’autobus abbiamo subito preso un cocco per rinfrescarci, due minuti più tardi ero già a sguazzare in acqua, e dopo altri dieci minuti stavo comodamente seduto sulla spiaggia, a godermi la vista del mare e delle palme, con in mano la prima caipirinha.
Ho passato il resto della giornata, completamente abbandonato alla seduzione della capitale bahiana, aspettando che arrivasse sera, avendo saputo che come tutti i Martedì quella notte sarebbe stata ravvivata dalla famigerata e attesissima festa del Pelourinho. I primi segnali già si avvertivano dal balcone del ristorante nel quale stavo cenando con altri ragazzi dell’ostello, da cui ci siamo affacciati per vedere il passaggio della timbalada, con il nutrito gruppo di percussionisti che avanzavano suonando insieme, tutti a battere lo stesso tempo, con pause, colpi secchi che vibravano in corpo, e dei crescendo così intensi che riempivano il cuore d’energia; la sfilata di percussioni era poi seguita da un lungo corteo di gente che ballava divertita, in cui si mischiavano i movimenti sensuali e armoniosi delle ragazze brasiliane con quelli ben più goffi dei tantissimi turisti. Subito dopo siamo scesi giù per sentire da vicino il fermento che si viveva in strada: in quella notte c’era Bahia, con i suoi ritmi che salivano da ogni vicolo, con la sua vitalità esplosiva, il viavai nei locali traboccanti di gente, l’energia trascinante dei gruppi che suonavano sui palchi montati nelle due piazze del Pelourinho, e quella altrettanto intensa di chi era lì sotto a ballare. Quando le strade si sono svuotate, abbiamo terminato la serata in un locale reggae; del nostro gruppo eravamo rimasti in quattro: io, lo svizzero, un tedesco, e una ragazza degli Stati Uniti. Molti dicevano che il Brasile fosse pericoloso, se ne parlava anche in ostello, si raccomandavano tutti di non starsene soli in posti a rischio, raccontando casi di aggressioni, di rapine, di borseggi: quella sera, nel locale reggae, è toccato anche a noi. Appena entrati, io mi sono diretto subito verso il bagno, per smaltire le birre bevute in strada, e mentre ero lì dentro, guardando dei ragazzi che stavano parlottando, pensavo che quello sarebbe stato un buon posto per chi avesse voluto derubare qualche malcapitato, ma ho preferito credere che stessi esagerando e che questa strampalata idea fosse ancora frutto di quel timore inopportuno da cui non riuscivo tuttavia a liberarmi. Appresso a me è andato in bagno il ragazzo tedesco, ed è tornato dicendoci di essere stato rapinato: proprio nel suo momento di maggior abbandono avevano spento la luce, gli avevano puntato alle spalle qualcosa che sembrava una pistola, e gli avevano sfilato tutto quello che portava nelle tasche. Abbiamo cercato almeno di salvare la serata, rimanendo a ballare, e passata una mezz’ora anche lo svizzero è dovuto andare in bagno, svuotandosi prima le tasche da solo per lasciare tutto a noi ed evitare che potesse svuotarle qualcun altro; è tornato, con in volto un’espressione già eloquente, dicendo: «La stessa identica scena!». Avevano chiuso la porta, spento la luce, e tenendolo fermo da dietro gli avevano frugato nelle tasche, per poi lasciarlo andare. Erika, la statunitense, diceva che, tra i tre, io ero quello che pareva meno “gringo”, forse per questo non mi avevano ripulito.
Per un giorno, andando all’isola Dos Frades, ho anche vissuto una nuova inaspettata esperienza: sono scivolato nel desolante baratro del turismo da caricatura, e non so se mi sentissi più a disagio lì o nel locale della sera prima, dove ti alleggerivano i pantaloni ogni volta che andavi in bagno. In fondo non era tanta la differenza: in entrambi i casi c’erano dei brasiliani che cercavano di toglierti tutti i soldi che avevi addosso, solo che qui lo facevano con la divisa dell’agenzia e con il sorriso stampato sulla faccia. Mi ci sono invischiato perché il pacchetto dell’agenzia sembrava l’unico modo per poter visitare qualche bella isola nei dintorni e tornare la stessa sera a Salvador, e poi perché me l’aveva proposto Ana, una ragazza che, tornando da un incontro di operatori turistici, era stata sul mio stesso aereo da Madrid, per cui non potevo rifiutare. Dalla barca vedevo la costa bahiana farsi piccola piccola, una sottile lingua scura, macchiata da spicchi di verde dove i raggi del sole riuscivano a farsi spazio tra le nuvole di un cielo che soltanto ora cominciava ad aprirsi. Salvador stava lì nel mezzo, si sporgeva sopra al mare con i suoi grattacieli e le sue colline ricoperte di piccole case colorate, e ci guardava allontanarci. Viaggiavamo con tanto di banda musicale in barca e cineoperatore al seguito, che non ci lasciava un istante, ci seguiva anche sulla spiaggia, pronto a cogliere ogni posa, ogni tuffo, o qualsiasi altro movimento che potesse arricchire di contenuti l’avvincente cortometraggio che ci avrebbe rivenduto alla fine della giornata. I più intraprendenti del gruppo si concedevano i loro momenti di protagonismo con saluti alla telecamera, interviste entusiastiche, ed esilaranti sketch che poi avrebbero mostrato con orgoglio a tutti gli amici, con questi poveri malcapitati che, seduti in formazione sul divano di casa, si sarebbero intanto sforzati per non cedere al sonno… «Ma guardate, guardate, quelli siamo noi… Ah, quanto ci si divertiva laggiù!».