Prima di avviarmi verso l’ostello volevo fare colazione, e l’occhio mi è caduto sulla scritta “croissant” sopra al bancone del bar; dopo le tante colazioni con formaggio, prosciutto cotto, uova strapazzate e succhi di frutta, che servivano solitamente negli ostelli insieme al caffè, volevo tornare per una volta alla mia vecchia cara abitudine della colazione italiana, e ho preso un caffellatte caldo da accompagnare al cornetto esposto al bancone: io per l’alimentazione sono un dannato tradizionalista. Chiunque, in Brasile, volesse mai fare una colazione di questo tipo, è bene che giammai, per nessun motivo, si lasci ammaliare dalle ingannevoli scritte “croissant”: quel cornetto non era un cornetto semplice, era farcito, e il ripieno era di pollo, col sugo, e insieme al caffellatte dev’essere stato il connubio più ardito della storia culinaria internazionale. Azzardi dolce-salato, qualche volta, possono sorprendere per la bontà, penso ad accostamenti tipo il gorgonzola col miele, che inizialmente, prima di assaggiarlo, guardavo con sospetto, ma che in verità adesso adoro. Questo no. Poteva sembrare uno di quei casi, ma non lo era affatto. Quel cornetto con il caffè era improponibile, sfiorava le soglie del disgusto, e fino all’arrivo in ostello il mio pensiero è stato fisso su una sola delirante sublime fantasia: la pallina di crema che spunta fuori e si gonfia, traboccando, al primo morso dei nostri splendidi sostanziosi cornetti ripieni. Davanti all’ostello, invece, mi sono scordato di tutto, anche dei cornetti alla crema: sperduto in mezzo alla campagna, alla fine di una strada terribile, con due autobus da prendere per quasi un’ora di percorso dal centro abitato, si apriva uno stupendo giardino con siepi curatissime, prati, alberi da frutto, e qualche avventore a dondolarsi sulle amache; in più c’era una sala per la colazione e per la cena a buffet, un campo da calcetto, il biliardo, la piscina, e un bar, che a pranzo faceva anche da ristorante, dove si stava a bighellonare quando non si aveva voglia di fare altro, e, per finire, c’erano anche due belle vasche per lavarci tutti i panni sporchi che avevo accumulato in una settimana, ben più comode degli angusti lavandini dei bagni ai quali mi ero adattato, finora, per lavare lo stretto indispensabile. Il fatto che fosse così fuori mano, e che dentro ci fosse tutto quello che si potesse desiderare, lo faceva somigliare più a un villaggio che a un ostello, ma i prezzi popolari e la gente che lo frequentava erano quelli tipici dell’ostello, e in ogni caso, dopo una notte passata in pullman, non mi dispiaceva per niente fermarmi per un paio di giorni a vivere una condizione tanto riposante. C’era solo una grossa pecca: la scarsa identità brasiliana, che oltre alla lezione di capoeira delle 18.30, e a qualche caipirinha, si faceva fatica a trovare. Tuttavia, anche questo era tollerabile: in fondo, se volevo visitare tutto il parco, di tempo da passare lì non ne restava molto.
Il parco naturale di Iguaçu è un’esperienza straordinaria, indimenticabile. Appena varcata la soglia, il parco viene a prenderti all’ingresso e ti porta a spasso tra le emozioni, ti accompagna tra le tue stesse fantasie, ti porta a visitare tutto quello che vuoi trovarci: la tenerezza degli animali che ti passano davanti sgambettando lungo i sentieri, la spensieratezza di cui ti contagiano gli uccelli e le farfalle che svolazzano tra i rami, l’intima serenità da quell’ineguagliabile e vivace silenzio che s’incontra soltanto dentro i boschi; poi i robusti alberi ti svelano i segreti della loro forza, l’indomabile imponenza dei tronchi ti trasmette sicurezza, mentre l’acqua, che percorre quei boschi rotolandosi nei letti che lei stessa s’è scavata, ti riempie d’allegria, e t’invade un’eccitazione quasi infantile quando vedi gli arcobaleni colorare e far risplendere quell’acqua negli innumerevoli salti tra le rocce. E non è tutto, può esserci ancora molto di più, basta guardarsi attorno e cercare, e cercarsi dentro, e ci si può far coinvolgere da infinite altre suggestioni presenti in quella sterminata area verde incantata che si stende, nei territori di Brasile e Argentina, intorno al fiume Iguaçu, l’affluente del Paraná che fa da confine tra le due nazioni. Poi, dopo averti cullato e carezzato con i bei panorami, le distese boscose, le tantissime cascate e fiumiciattoli, ti scuote con un’esplosione di potenza di rara bellezza: un solo punto in cui un intero specchio d’acqua si va a raccogliere per scendere tutta insieme nella “gola del diavolo”, un muro d’acqua impazzita, quasi coperto dalla nuvola di schizzi che si rialza dai piedi della cascata.
È un luogo magico, nel quale si perde ogni riferimento, in cui c’è una tale concentrazione d’energia in movimento che non si ha più la misura di niente. È il posto dove l’acqua si tuffa nell’acqua, giocando con sé stessa, e si assiste a quella magnificenza da una passerella a metà cascata, si arriva talmente vicino che se ne diventa parte, se ne è interamente assorbiti. Me ne stavo lì incantato a guardare il flusso costante di quella straripante massa in tumulto, cercando di goderla con tutto ciò che potevo, e mi mancava solo di berla e di sentirne il gusto, perché gli altri sensi n’erano già tutti completamente inondati: sentivo quell’acqua bagnarmi la pelle, ne respiravo l’odore, e il rombo impetuoso che muoveva mi vibrava nelle orecchie e nel petto. Con due ragazze svizzere, Karin e Linda, abbiamo visitato il parco sia il primo pomeriggio, dal lato brasiliano, sia tutto il giorno seguente, in terra Argentina, dove ho messo piede per la prima volta. Da quel secondo versante il parco è più vasto, e si assiste agli spettacoli più avvincenti: c’è la passerella che arriva dentro la gola del diavolo, e dal fiume, salendo su un potentissimo gommone con due motori da più di quattrocento cavalli (“…che al posto degli zoccoli hanno le ali”, come avrebbe recitato De Gregori), si può arrivare fin sotto il getto d’acqua. Non potevamo perderci quell’occasione, e ci siamo saliti anche noi: il gommone è partito da lontano per prendere una bella rincorsa, un paio di virate per far salire l’adrenalina, e poi di nuovo dritto, sotto una delle cascate. C’è stato un momento, all’ultima virata prima della violenta doccia, in cui ho girato la testa e i miei occhi hanno fotografato un’immagine memorabile: a sinistra, sopra di me, si alzava una possente montagna, vestita di un verde acceso, di fronte a questa se ne alzava un’altra che mostrava il suo fianco di roccia marrone, e nel mezzo, stringendosi tra le due pareti, il fiume scuro proseguiva davanti incanalandosi fino al favoloso spettacolo della gola del diavolo, dove la nuvola d’acqua che si alzava nascondeva un po’ della visibilità; il sole definiva i contorni di un arcobaleno, il cielo era di un azzurro sfumato che diventava celeste chiaro e limpido proprio sopra a quella nuvola irrequieta, e sulla destra, dove ora il gommone si stava volgendo con una piega da brivido, una striscia di roccia era coperta dal bianco muro d’acqua dentro cui ci saremmo fiondati. Stare sotto la cascata, subito dopo, è stato un impatto emozionale unico, travolgente e irresistibile come un amore a quindici anni.
Nei primi otto giorni di Brasile non avevo fatto nemmeno una foto; nelle poche ore passate in quel parco, sono arrivato a scattarne più di cinquanta. È quello che mi succede sempre: solitamente sono piuttosto restio a usare la macchinetta, ma quando la sfodero e mi decido a fotografare qualcosa che mi abbia colpito, al primo scatto il mio corpo viene posseduto dallo spirito di un misterioso maniaco dell’obiettivo che, in preda a un folle raptus, comincia a fotografare incessantemente quello stesso soggetto da tutte le angolazioni possibili, fino a che le batterie esaurite, un crampo all’indice della mano destra, o qualunque altro fattore ignoto non mi faccia tornare in me, e mi risveglio stanco, sudato, e senza ricordare nulla o quasi. Un raptus simile, ma in forma più moderata, l’ho avuto anche in Cile: delle poche foto scattate lì in tre settimane di viaggio, forse una ventina, almeno la metà le ho fatte in Patagonia, tutte allo stesso pinguino, e magari anche lui deve aver pensato che avessi qualche rotella fuori posto… Perché tutte quelle foto? Cosa c’era di tanto strano nell’essere pinguino in Patagonia?!?
Stavolta in quel parco, oltre alle cascate, che erano il soggetto privilegiato, sono anche riuscito a fotografare qualcuna delle meravigliose e coloratissime farfalle, e qualche quati, un simpaticissimo orsetto della famiglia dei procioni che, oramai abituato ad avere gli uomini sempre tra i piedi, si avvicinava senza paura a regalare primi piani, con la speranza di scroccare, in cambio, qualcosina da mettere sotto i denti.
Siamo tornati all’autobus dopo aver salutato alcuni argentini d’origine italiana (dei “tanos”, come li chiamano lì, che mi avevano sentito parlare in italiano con Karin), e siamo ripartiti in direzione Brasile, con l’autista che, a tempo perso, si dedicava anche all’animazione, offrendoci alcune delle sue collaudatissime gags che quasi certamente ripeteva in modo fedele a ogni viaggio: la più riuscita era quella che faceva all’andata, quando si fermava sulla frontiera brasiliana, mostrava dal ponte le due sponde del fiume di confine, e prima di entrare in territorio argentino si toglieva il cappellino che aveva in testa per sostituirlo con un altro del Boca Juniors, poi stendeva una bandiera con gli stessi colori sul cruscotto, in bella mostra, e passava davanti al posto di blocco prima della dogana suonando il clacson e salutando i poliziotti argentini al grido “BO-CA BO-CA”, mostrandosi poi orgoglioso e compiaciuto di come i poliziotti, ormai inevitabilmente rassegnati a subire quella ridicola pagliacciata tutti i giorni, avessero ricambiato il saluto sorridenti senza preoccuparsi minimamente di fermarlo per i dovuti controlli… Glie l’aveva proprio fatta, a quei babbei!
Al ritorno c’era la conclusione della scenetta, con la messa al bando di tutti gli ammennicoli da tifoso argentino e il ritorno sulla testa del più sobrio cappellino marrone con visiera con cui era partito da Foz.
All’ostello ho avuto appena il tempo per una doccia e per salutare tutti, e mi sono rimesso in viaggio verso Curitiba, capitale dello stato Paraná, dove mi sarei trattenuto per una giornata, spezzando così il viaggio per Rio che altrimenti sarebbe durato più di venti ore. Sull’autobus ero seduto accanto a una possibile futura stella del calcio: Carlos, un timidissimo diciottenne paraguayano con passaporto brasiliano che andava a Curitiba a fare il provino per giocare nell’Atlético Paranaense; calcisticamente diceva di ispirarsi a Denilson, aveva già una buona esperienza in squadre importanti del Paraguay, ed era stato spinto da tutti quelli che credevano in lui a tentare quest’avventura, il suo primo viaggio da solo lontano da casa, e a quanto pare erano riusciti a convincerlo bene e a caricarlo nel modo giusto perché adesso anche lui era ormai determinato e sicuro di farcela. Gli ho detto che magari un giorno l’avrei trovato a giocare nel mio paese, l’Italia, seguendo le orme di tanti altri calciatori brasiliani che giocavano nel nostro campionato; lui mi ha detto di si, che gli sarebbe piaciuto, e mi ha rivelato che anche in Europa ci giocavano tanti campioni brasiliani.