Quello stesso pomeriggio c’era lezione di capoeira, e non volevo assolutamente perderla, sicché mi sono dato una rinfrescata nell’ostello che avevo trovato poco distante, carino quasi come la loro pousada, e ci siamo ritrovati per andare insieme alla favela, perché era proprio lì che si trovava la palestra. In seguito all’impatto piuttosto brusco avuto quella stessa mattina con Rio, l’idea di andare in favela mi preoccupava un po’, benché a sentire loro non ce ne fosse motivo, almeno non in condizioni normali: dicevano che i rischi più allarmanti erano per le sparatorie tra i trafficanti e la polizia, a loro era capitato una volta di trovarcisi, ma per fortuna non era una cosa frequente; per il resto era un ambiente tutt’altro che ostile, una comunità che cercava per quanto possibile di convivere in pace, e sia Daniele sia Viviana s’erano integrati bene, si allenavano in quella palestra da tempo, ormai erano di casa. In effetti, giunti a destinazione, appariva tutto molto più tranquillo di quanto potessi immaginare, non c’era niente che potesse mettere apprensione, anzi c’era un’atmosfera distesissima di bambini che giocavano, famiglie che passeggiavano, e amici che si ritrovavano a bere qualcosa nei bar o a mangiare ai tavolini fuori dei locali sulla via principale; l’unico poliziotto che ho visto, che stava di guardia davanti a una caserma, passeggiava lì davanti in pantaloncini corti e ciabatte, era difficile guardare quelle scene e sentirsi in pericolo. La palestra era ovviamente un po’ spartana, piccolina e senza spogliatoio, però ci si stava bene, e con il permesso del Mestre (l’insegnante), ho potuto partecipare alla lezione del corso avanzato, una lezione, seppur faticosa, molto istruttiva, ultimata la quale siamo andati a mangiare in uno dei chioschi all’aperto che stavano lì vicino. In quel momento tutto è diventato chiaro: non so cosa avessi mangiato il giorno prima a Curitiba, ma lì, proprio in quel preciso momento, stavo finalmente provando il vero churrasco brasiliano, pezzi di tenerissimo manzo, di pollo, salsicce, e altre varietà di carne cotte allo spiedo per strada, su un enorme braciere; una carne così buona vale decisamente il nome che il churrasco s’è fatto in tutto il mondo, e anche se il tipo del chiosco ha esagerato con le porzioni, per merito di Viviana e Daniele che erano clienti fissi e gli erano evidentemente simpatici, ce lo siamo divorato fino all’ultimo pezzetto.
Per tornare a casa abbiamo ripreso l’autobus, con lo stomaco pieno e una birra bevuta appena prima di salire; ci mancava solo una sigaretta, peccato dover aspettare tutto il tragitto fino a casa. Mi sono girato, e con stupore ho visto Viviana e Daniele che ne accendevano una: mi hanno spiegato che lì agli ultimi posti, quando non c’era gente, lasciavano fumare senza problemi, infatti il controllore era seduto lì vicino senza dire niente, i finestrini dietro erano tutti aperti, e così ne ho accesa una anch’io, adesso non mancava proprio più nulla. L’autobus ci ha strapazzato fino a destinazione: è inimmaginabile lo stile di guida degli autisti di Rio, guidano come da noi non fanno neppure i tassisti, si tagliano la strada tra loro in una corsa frenetica per rubarsi i passeggeri, e anche quando rallentano tengono la frizione abbassata e il piede ancora sull’acceleratore, per tenere alti i giri del motore. Siamo scesi in una Lapa affollata, proprio sotto al quartiere di Santa Teresa; Lapa è forse come San Lorenzo a Roma, o forse è solo come Lapa a Rio, è un quartiere popolare, che ha ispirato e visto crescere movimenti artistici, musicali e culturali, e che racchiude in sé lo spirito passionale della Rio poetica e randagia, uno spirito impresso a grandi caratteri sulle mattonelle degli scalini sotto gli archi del vecchio acquedotto, dove risaltano le scritte LAPA – BOHEMIA – MALANDRAGEM – SAUDADE, che rappresentano quei sentimenti brasiliani di festa, destrezza e nostalgia, che forse non hanno equivalente negli altri dizionari del mondo. La notte era animata da voci e canti che uscivano dai locali, dalla musica, dai bar, da gente che passeggiava, beveva, suonava e ballava per la strada, ai cui lati, a fare da sfondo al festoso scenario, s’erano disposti i venditori ambulanti con gli immancabili churrasco, le birre fresche, e cucine da campo che reggevano enormi pentoloni di feijoada o di qualche altro piatto locale, e poi c’erano gli artigiani, che mettendo insieme legni, semi tropicali e resine tiravano fuori ardite decorazioni sugli oggetti più disparati. Con uno di questi maestri d’arte, amico di Viviana e Daniele, abbiamo passato quasi tutta la serata, incantati dalla sua abilità, dalle spiegazioni sulle tecniche che usava per i suoi lavori, e dai racconti degli avventurosi viaggi tra le foreste, soprattutto in Amazzonia, alla ricerca dei materiali. Poco più avanti, in una cantina, un complessino si era messo a suonare inondando la via di ritmi festosi, e il pubblico accalcato, che si allargava anche fuori del locale, fino in strada, partecipava a quella festa ballando, incitandoli con vivaci sorrisi e battendo le mani per accompagnare la musica. La mia prima giornata “no Rio” s’è chiusa lì, e ripensando a tutte le cose che avevo fatto e visto mi pareva impossibile che fossi arrivato solo poche ore prima.
Il mattino successivo è stato uno dei momenti più emozionanti di tutto il viaggio: Daniele mi ha riportato in favela per andare in una struttura, una specie di centro sociale, dove la gente del quartiere si assumeva il difficile compito di tenere i ragazzini il più possibile lontano dalla strada e dai guai, facendogli un po’ di scuola, insegnandogli musica, ballo, e tutto ciò che li potesse aiutare a farli crescere in un ambiente più sereno. Quella mattina Capivara, uno dei ragazzi del Carcará, teneva una lezione di capoeira per i bambini del centro, e noi andavamo a vedere la roda che ne sarebbe seguita subito dopo. La capoeira diventava per me l’opportunità per entrare dove probabilmente non era mai stato nessun altro straniero, almeno nessun turista che fosse di passaggio a Rio per pochi giorni, e, con altrettanta probabilità, alla maggior parte di quelli che passavano per Rio non sarebbe nemmeno interessato andarci; per me era un momento memorabile, l’occasione per conoscere qualcosa in più, anzi, molto di più di quel Brasile che ero andato a scoprire, quello che sui depliant non si riesce a vedere, quello di una solidarietà che forse prima d’allora avevo conosciuto soltanto a Cuba, e del Brasile che stava nella dolcezza di una roda, carica d’energia, alla quale infine ho preso parte anch’io giocando capoeira con qualcuno di quei ragazzi. Alcuni di loro apparivano estremamente disinvolti, altri più impacciati, io li guardavo alternarsi al centro della roda, e forse ero il più emozionato di tutti: per loro partecipare al gioco era un modo per vivere una mattinata, io invece giocavo per partecipare, in una mattinata, a un modo di vivere.
Il pomeriggio me lo sono invece lasciato per la Rio da cartolina, sono salito sul Morro do Corcovado a visitare il simbolo di Rio, l’icona carioca conosciuta in tutto il mondo: l’enorme statua del Cristo Redentore, che da un monte altissimo (710 metri, come avevo diligentemente letto sulla guida) domina tutta la città. Ci si arriva passando attraverso la foresta, ci si arrampica su con un grazioso trenino, copia di quello originale di fine ‘800, e sopra, all’arrivo, c’è un’emozione straordinaria che aspetta solo di farsi respirare: il Cristo è un’opera maestosa, sta lì in piedi, in tutta la sua grandezza, e con le mani aperte abbraccia l’intera città e tutta la sua gente. Di sotto c’erano tutte le Rio de Janeiro, con tutte le loro contraddizioni edilizie e sociali, la Rio dei grattacieli che si mescolava con quella delle favelas, la Rio elegante delle vie commerciali, dove passeggiavano donne imbellettate, era confusa con quella del degrado, dove, tra i vicoli nascosti, avevo incontrato sguardi di occhi fragili che si schiudevano, spauriti e rassegnati, sopra a nasi che tiravano colla, e ancora, c’era la Rio dei celebri stadi di calcio, e quella delle spiagge bianche: c’era tutto quello che avevo visto finora e tutto quello che avrei potuto vedere d’ogni singolo spazio carioca. Per definire quello spettacolo non c’era espressione più adatta di quella esclamata da un brasiliano che si stava affacciando insieme a me: «INACREDITABILE !!».
Avevo preso in strada un volantino che annunciava all’indomani, per la mattina del 20 Marzo, a un anno dall’attacco degli U.S.A. all’Iraq, una manifestazione contro quell’invasione, e, più in generale, contro tutte le guerre; l’incontro era anche l’occasione per i movimenti della sinistra più radicale, passati da poco all’opposizione, per esprimere il dissenso verso la politica del governo di Lula, colpevole, a loro dire, di aver illuso la popolazione con una campagna elettorale demagogica senza poi riuscire a realizzare quasi nulla di quanto promesso, disattendendo così le notevoli aspettative create. Per quel poco che dall’Italia avevo saputo su Lula, e avendo, da buon italiano, una certa competenza sull’argomento “promesse elettorali”, mi sembrava impossibile che criticassero tanto ferocemente il presidente che solo pochi mesi prima era riuscito a portare la sinistra unita al governo con un consenso quasi plebiscitario, sconfiggendo quei movimenti neoliberisti che negli ultimi anni avevano quasi messo in ginocchio la nazione. Per di più era un fautore delle politiche sociali, un antimilitarista che appena raccolta la presidenza aveva aperto le strutture sportive dei corpi militari per metterle a disposizione gratuita delle persone meno abbienti, che aveva annullato un ordine per dodici caccia militari e riconvertito l’uso di quel denaro a favore dei ministeri sociali, ed era anche il promotore del programma “fame zero” e di quello per concedere la proprietà dei terreni e delle baracche agli abitanti delle favelas; inoltre era un personaggio incredibilmente risoluto, che aveva avuto il coraggio di contrapporsi allo strapotere e ai ricatti politico-economici statunitensi con dei provvedimenti che pochi altri avrebbero avuto la sfrontatezza e la forza di prendere: aveva ribattuto alle tasse maggiorate che gli U.S.A. addossavano ai visitatori sudamericani inventandosi una tassa extra per tutti e soli quelli che fossero entrati in Brasile con passaporto statunitense, e aveva promosso la sostituzione, in tutti gli uffici pubblici, del sistema operativo Windows, sotto indagine dell’antitrust per venire di fatto imposto dalla Microsoft come unica piattaforma, con l’altrettanto efficiente, e gratuito, sistema Linux.
La gente venuta a manifestare era pochissima, circa duecento persone, molte delle quali del movimento Sem Terra, preoccupate molto più delle vicende interne che del conflitto iracheno, così, per provare a capire meglio il delicato contesto sociale brasiliano, sono rimasto lì a confrontarmi con alcuni degli organizzatori, contenti di avere un interlocutore straniero interessato alla realtà del loro paese; mi ha invece sorpreso che la questione irachena non attecchisse più di tanto, soprattutto quando, la mattina seguente, ho letto sul giornale che per la stessa manifestazione, che c’era stata in diverse città del mondo, a Roma erano scese in piazza quasi due milioni di persone, cosa che, con un’insolita carica d’orgoglio nazionale (la situazione politica italiana non me ne offriva molte altre opportunità), non ho mancato di far presente a tutte le persone cui ho potuto mostrare il prezioso quotidiano.