L’autobus è partito da Angra andando incontro alla notte nerissima che avrebbe attraversato nelle dieci ore di viaggio. Ho dormito finché ho potuto, svegliandomi quando il sole aveva già cominciato a cancellare quel nero, e a colorare il cielo d’azzurro e i campi di un bellissimo verde. Alla stazione mi aspettava Silvana, tornata anche lei in autobus da São Paulo, dov’era stata per lavoro, per passare qualche giorno insieme; siamo andati a casa sua, una casa elegante in un quartiere residenziale, e poi siamo subito usciti, dopo una bella rinfrescata sotto la doccia. Mi ha portato a conoscere un suo amico che insegnava capoeira, un ragazzo gentilissimo che, dopo avermi raccontato della sua attività, mi ha fatto anche provare a suonare uno dei suoi berimbau, lo strumento che accompagna la capoeira nelle rode dando i tempi del gioco; diceva che molti brasiliani, soprattutto i più giovani, stavano perdendo l’interesse per gli strumenti tradizionali come il berimbau, ed era contento di trovare un italiano che volesse imparare a suonarlo. Alla fine mi ha anche donato una maglietta della sua scuola, e mi ha invitato a partecipare alla lezione che l’altro istruttore avrebbe tenuto al mattino seguente. Non avevo ancora assaggiato la cachaça, la celeberrima acquavite brasiliana con cui si fa anche la caipirinha, e il papà di Silvana, prima di pranzo, me ne ha offerto un bicchierino perché la provassi, per di più di quella fatta in casa, ottima, così gradevole che i bicchierini sono presto diventati due. Finito il pranzo, ho diviso il pomeriggio tra le vie di Belo Horizonte e un negozietto di vinili, economico e ben fornito, dal quale non sarei più voluto venir via: alla fine l’ho fatto, ma non di certo a mani vuote. Quando Silvana ha terminato di lavorare siamo andati a cercare un regalo per la fidanzata di suo fratello, che festeggiava il compleanno quella sera, e poco più tardi siamo andati alla festa, dove mi sono trovato perfettamente a mio agio tra il viavai di amici e parenti con cui, per quel poco che riuscivo a fare con il mio portoghese stentato, cercavo di conversare. Il papà della festeggiata era stato il procuratore di Toninho Cerezo, cresciuto anche lui proprio in quel quartiere, e mi raccontavano di lui, della sua famiglia, delle volte che erano stati a trovarlo in Italia, e soprattutto degli anni che aveva trascorso a giocare nella Roma e del suo legame con la mia città; erano una compagnia piacevole, e tra chiacchiere, vini americani e stuzzichini, abbiamo finito per far tardi senza quasi che me ne accorgessi.
Sono riuscito ad alzarmi in tempo per la lezione di capoeira, nella quale abbiamo fatto esercizi su alcuni colpi, seguiti dalla consueta roda in cui abbiamo provato a metterli in pratica, e prima di andare via mi sono fermato a parlare con l’istruttore, smanioso di sapere come fosse vissuta la capoeira all’estero e di prendere contatti utili, animato dall’idea di trasferirsi un giorno a insegnare in Europa. La lezione mi aveva aperto sufficientemente lo stomaco per il festival del cibo che stava aspettando me e Silvana: una sua amica, Dona Sirlei, ci aveva invitato a pranzare con lei nella churrascaria di sua proprietà. Stavolta c’era anche un pericoloso aggravante rispetto alla devastante abbuffata di Curitiba: era tutto straordinariamente più buono. Il buffet era invitante come il mare di Sardegna nel mese d’agosto, con un’infinità di vassoi colmi di leccornie, la cui bellezza era superata soltanto dal loro sapore; ho cercato di limitarmi a piccoli assaggi di ciò che mi piaceva o m’incuriosiva di più, malgrado ciò, c’erano talmente tante cose da provare che n’è venuto fuori ugualmente un piatto stracolmo, che ho peraltro onorato ripulendolo a dovere. A quel punto hanno iniziato a servire la carne, che facevano arrivare dall’Argentina dove, oltre alle condizioni ambientali migliori, venivano praticati anche un trattamento e una macellazione differenti che la mantenevano più tenera sublimandone la qualità; ovviamente anche qui non mi sono lasciato scappare nemmeno una portata, anzi mi sono concesso pure qualche bis. Quando sono arrivati i dolci, avevo i succhi gastrici in lacrime, ma non ne ho avuto pietà, ho voluto assaggiare anche quelli (decisione rivelatasi assennata, poiché come previsto erano davvero eccellenti); alla fine, però, ho dovuto arrendermi, a finire tutte e tre le generose porzioni proprio non ce l’ho fatta.
Ho chiuso la giornata a casa di Silvana, tra lunghi momenti d’ozio e tentativi di conversare in portoghese con la sua famiglia, e al mattino successivo siamo partiti per Ouro Preto, un paesino poco distante, un piccolo gioiello barocco di grande valore storico e artistico, proclamato dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità. Già al primo colpo d’occhio spiccavano le graziose chiese, l’impronta in stile coloniale delle casette colori pastello e le pittoresche stradine di ciottoli che si arrampicavano su fino alla piazza centrale; questa era poi rifinita da negozietti e dai banchi di un mercatino nei quali le parti da protagonista spettavano alle numerose pietre preziose, più o meno grezze, di cui il Brasile vantava di gran lunga la maggior produzione al mondo, e, insieme, a ogni tipo di lavori fatti in pietra saponaria, anch’essa tipica del luogo e molto adatta alla lavorazione artigianale. Abbiamo alloggiato in una pousada dove tornerei di corsa anche solo per l’indimenticabile colazione che abbondava di “pão de queijo”, squisiti panetti al formaggio, tra i piatti più rinomati della cucina mineira (dello stato di Minas Gerais), e di strepitose confetture d’ottima frutta fresca, opera di una dolcissima cuoca che ce ne ha anche spiegata la preparazione. Prima di tornare a casa abbiamo visitato l’interno di una miniera d’oro, con una guida che ci ha illustrato le procedure per l’estrazione, raccontando anche storie e aneddoti sulle terribili condizioni di lavoro dell’epoca, così come sui comportamenti e sulle abitudini dei minatori che lavoravano lì dentro al tempo in cui la miniera era in funzione.
Tramontata l’ipotesi di partire quella stessa sera per fare una tappa a Porto Seguro, che avrebbe spezzato il viaggio per Salvador con una giornata di mare, sono rimasto a dormire un’altra notte da Silvana, e lunedì mattina ero pronto per ripartire. A dispetto delle preoccupazioni di tutti, che mi consigliavano di andare in aereo per minimizzare i tempi, o di prendere un pullman extra lusso dotato di un confortevole letto per dormire, a me interessava unicamente arrivare, senza nessuna fretta: gli spostamenti li avevo sempre considerati parte del viaggio, poi dall’autobus si potevano ammirare scorci magnifici, spesso capitava d’incontrarci gente interessante, e in buona compagnia anche le distanze più lunghe tendono sorprendentemente a ridursi. Alcuni tra i ricordi più vivi che avevo conservato in giro per il mondo erano nati nelle situazioni di viaggio più disagiate, come a Cuba nei “camion di Fidel”, o in alcuni piccoli villaggi sparsi per l’America Latina, dove avevo dovuto dividere lo spazio con galline o altri animali; non dico che cercassi condizioni disagevoli, eppure, in alcuni casi, troppe comodità m’imbarazzavano, perché mi sembrava che mi allontanassero dalla gente di lì. Molti turisti quando sono in vacanza nei paesi più poveri si concedono tutto quello che nel loro non si azzarderebbe neanche a desiderare, soltanto perché lì “possono permetterselo”. Io non ci riesco, io vivo in modo semplice nel mio paese, non vedo perché dovrei vivere diversamente in un altro; al contrario, quello che cerco di più in un viaggio è vedere il mondo da prospettive differenti, imparare a conoscerlo attraverso gli altri, leggere in occhi che siano diversi dai miei, che sappiano vedere cose che io non vedo, cerco di confrontarmi con altre popolazioni, con pensieri che non hanno radici nelle mie certezze, e che anzi possano metterle in discussione, e questo difficilmente si trova negli alberghi a quattro stelle, va invece cercato per le strade, nelle case, e sugli autobus disastrati più che su quelli extra lusso… e poi, sarò anche strano, ma la televisione a tutto volume e l’aria condizionata accesa al massimo, che immancabilmente si accompagnano a quei pullman per turisti, sono due cose che detesto!
Deciso il mezzo, un semplicissimo autobus di categoria “convencional”, restava da fare il biglietto, e Silvana ha chiesto a Clarice, una ragazza che lavorava con lei, di assistermi per acquistarlo. Uno dei rischi che si corre quando si viaggia soli è di scatenare negli altri un sentimento d’iperprotettività, che li spinge ad accompagnarti ovunque per non farti perdere, a contarti i soldi prima di pagare per non farti fregare, a parlare al posto tuo per paura che tu capisca male… E’ bello che si prendano così cura di te, però ti priva del piacere di scoprire, di provare a comunicare senza conoscere le parole, di perderti per la strada per ritrovarti in un mondo sconosciuto, e sederti su una panchina a osservarlo, solo per vedere come si muove; è quel gusto della scoperta, il gusto del randagismo, ciò che anima il piacere di viaggiare da soli, e di sentirsi in alcuni momenti temerari come un argonauta, e altre volte spaesati come una vela senza vento, ad aspettare un soffio che ti conduca da qualche parte, da qualsiasi parte.
Il viaggio per Salvador non è stato pesante, malgrado le ventidue ore di cammino, al contrario, i momenti più noiosi erano proprio le continue soste nelle aree attrezzate, costruite in serie come i nostri autogrill, quando piuttosto avremmo potuto fermarci a fare due passi in uno dei tanti villaggi che attraversavamo, girare per bancarelle, negozi, e mangiare in qualche locale più intimo e invogliante di quanto lo fossero quegli orribili self-service tutti maledettamente uguali. Per il resto del tempo, dopo una solenne dormita, l’attenzione era interamente rapita dal paesaggio che si modificava oltre il vetro, dove il terreno variava da lunghe distese piatte a sfondi più movimentati di colline e montagne dai colori tenui, fatti perlopiù di rocce e piante grasse; qualche collina di granito ricordava il morbido Pão de Açúcar che si erge nel mezzo della città di Rio, ma intorno cresceva una vegetazione di un verde più discreto, che contrastava con quello intenso e deciso che avevo visto nel sud. Il cielo invece rimaneva sempre uguale, era lo stesso cielo limpido e fresco che mi aveva accompagnato ovunque. Un’oretta prima dell’arrivo mi sono messo a parlare con un canadese d’origine italiana, che ascoltando la solita mistura di lingue con cui tentavo di esprimermi ne aveva indovinato la neppure troppo nascosta base italiana; anche lui era alquanto malato di viaggismo, e avendo la fortuna di avere interessi di lavoro da quelle parti ne stava approfittando per farsi un lungo e bellissimo giro per tutto il Brasile. A me restavano solo pochi giorni, ma non mi avvilivo, tutt’altro, ero contento perché stavo andando a passarli nella località che più mi aveva colpito, la città della musica, la Salvador dalle due facce: quella sonnolenta e pigra di giorno, che si siede sugli scalini all’uscio di casa a contemplarsi, che si trascina stanca e svogliata fino a che non faccia buio, e quella che poi si risveglia di notte, sotto le stelle, a cantare e ballare con un’imprevedibile e travolgente energia, e ci tornavo proprio di martedì, il giorno della festa del Pelourinho, quando la vitalità notturna era più accesa che mai.