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Brasiliando

Mar, 2004 ~ Lascia un commento ~ Written by admin

Avevo fatto parecchia strada, e per la prima volta ritornavo a camminare i miei passi su strade che conoscevo già, sebbene con uno spirito diverso: non so dire quanto fossi riuscito ad abbronzarmi in quei venti giorni, certamente non ero diventato così nero da passare inosservato a Salvador, eppure mi sentivo perfettamente a mio agio, ero comunque molto più brasiliano di quando l’avevo lasciata, e scommetto che sarebbe bastato mettermi un pallone tra i piedi per notare la differenza. Ormai non m’importava più che mi scambiassero per brasiliano, io mi sentivo a casa, e questo era tutto quello che m’interessava; nel sud, come avevo sperato, era capitato spesso che mi parlassero in portoghese, pensando che fossi di lì, ma adesso anche questo aveva perso d’importanza: se anche mi avessero preso per un turista, se mi avessero parlato in inglese, oppure offerto souvenir, come mi è successo più d’una volta anche nel centro di Roma, avrei reagito alla stessa maniera, mi sarebbe solo venuto da sorridere.

    Ho passato la sera a gironzolare, a chiacchierare con una ragazza che faceva il churrasco in strada, e ad ascoltare i ritmi della festa, scanditi dai gruppi che suonavano sui due palchi sotto ai quali si ammassavano i ballerini più intraprendenti. All’indomani, ancora alla ricerca di qualcosa di nuovo da vedere, mi sono incamminato per una stradina dall’aspetto piuttosto anonimo che scendeva giù verso il porto, dove gli unici negozi, oltre a qualche piccolo bar, erano calzolerie e botteghe che vendevano tessuti. A un angolo c’erano due vecchietti che giocavano rumorosamente a dama, e a ogni mossa, con le pedine sbattute con forza sull’enorme scacchiera che tenevano appoggiata sulle ginocchia, seguiva un eco di schiamazzi, imprecazioni, risate e sfottò, che lasciavano intendere in quei gesti un qualcosa di consueto, scherzavano con quella confidenza di chi si conosce da una vita; altri invece se ne stavano seduti a guardare in silenzio il lento muoversi di quel quartiere popolare, come presumibilmente avevano già fatto la mattina prima, e avrebbero fatto ancora la mattina successiva, e tutte le altre. Era incredibile come quel quartiere, a pochi passi dal centro, fosse tanto lontano dalla frenesia turistica che imperava per le vie e per i locali del Pelourinho, e mantenesse una sua identità tradizionale molto più vera, immutata, e apparentemente immutabile. Mi è passato accanto un tipo che avevo visto la sera prima, sotto al palco, ballare le vivaci musiche con cui i gruppi infiammavano la notte: trascinato dall’allegria della festa e soprattutto dall’alcool bevuto, un po’ barcollante, si era esibito nell’arte del samba invitando a ballare chiunque gli capitasse a tiro. Mi ha domandato qualcosa, tanto per attaccare discorso, poi mi ha chiesto di dove fossi, e cosa stessi facendo da solo per quelle strade così poco appetibili ai turisti; si vedeva che era in vena di chiacchiere, né lui né io avevamo molto da fare, e mi ha proposto di accompagnarmi, per quelle vie, a incontrare la vera Salvador. Lo chiamavano Paulista, per via delle sue origini, ed era un artista, un pittore naif d’impronta squisitamente bahiana che esponeva i suoi lavori in un negozietto centralissimo del Pelourinho. Aveva una faccia simpatica, e sembrava parecchio popolare in quella zona, salutava molta della gente che incrociavamo e ogni tanto si fermava a presentarmi qualcuno di quei personaggi, ognuno col suo soprannome, e a tutti diceva di come mi avesse visto solo soletto scendere verso il porto per quelle vie così povere: ne era rimasto davvero impressionato, e raccontava orgoglioso di come io non fossi come gli altri turisti, ché ero lì per conoscere il cuore di Bahia, e lui era lì con me per presentarmelo. Mi parlava della sua vita di artista, della sua casa tra i boschi, vicino al mare, di un corso di capoeira che aveva appena terminato, e d’ogni cosa esibiva foto, documenti e certificati, perché la parola di un negro non conta nulla, diceva, un negro deve provare sempre quello che dice. Dagli stili di costruzione dei palazzi mi mostrava le testimonianze delle diverse influenze europee e delle dominazioni che dal 1500 si erano succedute in quella splendida e martoriata terra; alcune di quelle case erano rimaste abbandonate, probabilmente da qualche nobile famiglia europea che per paura delle riforme e della perdita dei privilegi era fuggita da lì a gambe levate. Ripeteva che gli stranieri avevano occupato e sfruttato per secoli quella terra generosa senza rispetto per la popolazione locale e in particolare per i neri, che erano la maggioranza, e che ancora adesso gli stranieri in arrivo a Salvador si limitavano a visitare i quartieri turistici, tornandosene via senza aver capito nulla o quasi della città, né dei suoi abitanti, perché avevano paura di confrontarsi con loro. Abbiamo fatto un giro anche al Mercado Modelo, e da lì al passaggio sotterraneo, usato un tempo dai negrieri per far uscire gli schiavi dalle navi e farli arrivare in città senza correre il rischio che venissero “rubati”. Alla fine ci siamo fermati a un bar lì vicino, che faceva un frullato di frutta strepitoso, lì Paulista ha cominciato però a bere cachaça e, sorso dopo sorso, a diventare una compagnia sempre meno piacevole, i suoi apprezzamenti per la mia amicizia si sono tramutati in un invito a seguirlo a casa, ad andare a letto con lui, e non contento del rifiuto ha preso a inveire prima contro le donne e poi contro i bianchi sfruttatori. Abbiamo ripreso a camminare senza che riuscissi a liberarmene finché, in seguito a qualche tentativo andato a vuoto, non mi sono arrestato di nuovo davanti a un negozio di souvenir a guardare gli strumenti di capoeira, e lui si è allontanato; mi sono accorto poco più tardi che ero caduto dalla padella nella brace: aveva sguinzagliato Jorge Berimbau!

Parlando con Paulista gli avevo accennato che mi sarebbe piaciuto comprare un berimbau, e lui aveva promesso che mi avrebbe accompagnato da un suo amico che li costruiva, e che con lui avrei potuto prenderne uno a un buon prezzo. Quell’amico adesso era lì, era Jorge Berimbau, un ragazzone alto e robusto, capelli lunghi e faccia poco raccomandabile; m’è venuto incontro tutto sorridente, portandomi via dal negozio e dicendomi che ero stato fortunato ad aver incontrato lui: quella che stavo vedendo era robetta per turisti, lui mi avrebbe mostrato dei veri strumenti professionali, i migliori di tutto lo stato di Bahia, che lui costruiva da quando era ragazzino, tanto da guadagnarsi quel soprannome. Considerando che Paulista era finalmente rimasto in disparte, e che in fondo un buon berimbau volevo prenderlo davvero, l’ho seguito fino al negozio che vendeva i suoi lavori, che, per inciso, era un altro banalissimo negozio di souvenir tale e quale a quello in cui mi ero fermato io; mentre li provava, mi illustrava minuziosamente i criteri per valutarne la qualità, le proprietà del legno, la differenza dei suoni e le varianti armoniche che caratterizzavano i tre tipi di berimbau, il “viola” (dai toni più alti), il “medio” (appunto, medio) e il “gunga” (con il suono più grave, per gli accompagnamenti). Un’occasione come quella non dovevo perderla, insisteva, dei pezzi così pregiati erano già una rarità nel suo paese, figuriamoci nel mio! Come facevo a lasciarglieli lì? Avrei potuto acquistarli tutti e tre e tornarmene a casa, trionfante, con la batteria strumentale al completo, e parlava con una confidenza, e con uno sguardo complice, che appaiono del tutto innaturali tra due persone che non si conoscono, e che sono segnali assolutamente inequivocabili di quando stai per essere fregato. Mi sono complimentato per i suoi strumenti, che a onor del vero suonavano molto bene, e gli ho detto che l’avrei tenuto presente per l’ultimo giorno, quando, con i soldi che mi sarebbero rimasti, avrei sicuramente comperato qualcosa.

Ovviamente non era così facile, non era quella la risposta che voleva sentire. Berimbau era uno di quei mastini che una volta iniziato a mordere non molla più la presa, e com’era prevedibile, riposti berimbau e sorrisi, è uscito dal negozio subito appresso a me, già piuttosto alterato. Non mi lasciava andare via, mi avrebbe seguito dovunque fossi andato, e pochi metri più avanti mi ha “invitato” a fermarmi e a sedermi, per parlare “tra amici”. Ha sentenziato, in tono perentorio, che l’avevo offeso, che quello era il suo lavoro e che io non potevo permettermi di prendermi gioco così del suo lavoro: con tutto il tempo che aveva sacrificato per me, per mostrarmi i suoi strumenti, avrebbe potuto costruirne degli altri e guadagnarci un sacco di soldi, il suo tempo costava, e io in qualche modo dovevo ripagarglielo. Paulista gli aveva assicurato che io avrei acquistato i suoi berimbau, lui si era scomodato per farmi vedere i migliori che aveva, e non era “corretto” che io me ne andassi da lì senza comprare nulla!

Analizzando il personaggio, la sua insistenza, e soprattutto la sua stazza, considerando che ero lì da solo e che non avevo altro modo di liberarmi di lui, ho pensato bene di poter scendere a compromessi e tentare il rilancio con una mia controproposta: ne avrei comprato uno, il berimbau medio (in fondo non potevo negare che gli strumenti fossero buoni), e in seguito, prima di partire, avrei deciso se prendere anche viola e gunga. Sapeva già anche lui che il primo acquisto sarebbe stato anche l’ultimo e che non mi sarei più fatto vedere, ma poteva accontentarsi: gli è tornato subito quel suo sorriso inquietante da amicone, e ovviamente, avendogli detto che non avevo soldi dietro, si è gentilmente offerto di accompagnarmi fino all’ostello per prenderli.

Adesso il suo tempo prezioso sembrava valere un po’ meno, e per andare all’ostello e tornare al negozio ci abbiamo messo più di un’ora: pareva non ci fosse nessuno, in tutta Salvador, che non conoscesse Jorge Berimbau, e lui si fermava con ogni persona, ogni gruppo, in ogni locale in cui ci fosse gente, a salutare, a scherzare, e a far conoscere a tutti quanti il suo nuovo amico italiano, per poi relazionarmi dettagliatamente sulle attività, tipicamente non del tutto lecite, di tutti quelli che mi aveva presentato. Di qualsiasi cosa avessi avuto bisogno a Salvador, bastava chiedere a Berimbau. Erano in tanti in quella città a vivere più o meno d’espedienti, come anche lui, Jorge, che a quarant’anni aveva avuto una famiglia, una casa, un lavoro, e poi aveva perso tutto, sedotto dalla bella vita e dal fascino di alcool, droga, gioco d’azzardo e prostitute; in fondo questi erano anche i personaggi raccontati da Amado, travolti dai piaceri, dalle tentazioni e dal vizio, che si affidavano alla loro “malandragem”, come la chiamano lì, per sopravvivere e guadagnarsi il rispetto della comunità, personaggi di una Bahia dal temperamento romantico, affascinanti nei libri proprio per la loro audacia e per la sfrontatezza, ma che suscitano un’attrazione di gran lunga minore quando te li trovi davanti e hai a che fare con loro.

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