L’impatto con la civiltà e le costruzioni dei maya, gli sbalorditivi “uomini del mais”, è stato dirompente, soprattutto davanti alla piramide del Castillo, una costruzione di incredibile imponenza e fascino, ottimamente conservata. Sono entrato, dal piccolo ingresso, nell’angusto passaggio che portava fino all’antica piramide originaria, rimasta nascosta all’interno di quella che si vede oggi, dov’era custodito un suggestivo trono in pietra a forma di giaguaro, con gli occhi di giada incastonata e con altri dischetti di giada che ne disegnavano le macchie; poi sono salito sulla cima della grande piramide, costruita in un secondo tempo sopra a quella più antica. Le scalinate, disposte su ognuno dei quattro lati, erano perfettamente orientate verso i punti cardinali: ci si arrampicava su 9 livelli, quanti erano i mesi del calendario maya, e il totale degli scalini della piramide era pari a 365, a rappresentare i giorni dell’anno solare. La vista da sopra era incantevole: dalla disposizione dei ruderi, lì in basso, si riusciva a intuire tutta la struttura dell’antica città. Dopo aver goduto di quella magnifica veduta, prima che si facesse troppo tardi, ho dovuto lasciare le rovine e sono tornato a prendere lo zaino alla posada che mi aveva ospitato per la notte. Sono uscito di nuovo in strada, pronto a proseguire il viaggio, e lì mi sono finalmente accorto che iniziavo a rivedere le facce e le espressioni che avevo imparato ad amare negli altri viaggi latinoamericani: gente semplice, spesso povera, ma straordinariamente dignitosa, con sguardi affabili, ricolmi di una serenità che gli manteneva sempre il sorriso negli occhi; ero ammaliato dall’espressività di quei volti, impazzivo per quella loro accattivante facilità nel sorridere appena gli sguardi s’incrociavano, sorrisi aperti, sinceri, brevi ma indimenticabili.
Sull’autobus per Merida, la capitale dello Yucatan, sono saliti due indios, che si sono seduti vicino a me; erano ubriachi fradici, e quello più intraprendente, o forse semplicemente quello meno carico di alcool, ha iniziato a parlarmi, cominciando con brevi convenevoli, presentendosi e chiedendomi da dove venissi, dopo di che, scioltisi entrambi, hanno cominciato a conversare animatamente dando libero sfogo alla loro inguaribile passione: il calcio. Mi hanno tenuto per più di mezz’ora a subire una carrellata di nomi di calciatori messicani, oltre a qualche estemporaneo sfoggio di conoscenze in campo internazionale, in verità neanche aggiornatissimi, visto che la loro cultura in materia pareva fermarsi ai mondiali del ’98. A parte l’argomento piuttosto monotematico, i due erano piacevoli, e tra una perla calcistica e l’altra mi hanno invitato a unirmi a loro: erano diretti a un villaggio dove per un’intera settimana, a cominciare da quella domenica pomeriggio, ci sarebbe stata una grandissima festa maya con balli, musiche, donne, corride e tequila (per quest’ultima loro due avevano deciso di anticipare di qualche ora l’inizio dei festeggiamenti). La proposta era davvero allettante ma, in parte, ero frenato da un rigetto innato verso la corrida cruenta, che in quei villaggi rappresentava una tradizione popolare molto sentita e sarebbe inevitabilmente stata il piatto forte della festa, e soprattutto aspettavo ancora di sapere se Roberto, un amico che stava cercando di organizzarsi per raggiungermi dall’Italia, fosse poi riuscito nel suo intento: in quel caso sarebbe arrivato il 15 a Città del Guatemala, e per farmi trovare lì avevo ancora un sacco di strada da fare e parecchie cose da vedere, perciò li ho ringraziati ma ho dovuto, un po’ a malincuore, declinare l’invito. Loro sono scesi poco più avanti, non senza prima precisare, a scanso di equivoci, che il più grande giocatore di tutti i tempi era stato indiscutibilmente il messicano Hugo Sanchez, ma che c’era anche un altro giocatore che non era stato affatto male, si chiamava Diego Armando Maradona.
Appena sceso, mi ha avvicinato una ragazza bionda che era sul mio stesso autobus: era olandese, come mi ha raccontato poi, e mi ha chiesto se stessi cercando un posto per dormire, perché, se fosse stato così, poteva accompagnarmi a un ostello molto carino dove lei già alloggiava da un paio di giorni; l’ho seguita, e dopo una rinfrescata siamo riusciti insieme per fare una passeggiata fino alla piazza principale, una vasta area quadrata disposta con gusto e molto curata, che come tutte le domeniche traboccava di vita. Una delle quattro larghe strade che ne delimitavano i lati era stata chiusa e trasformata in un’enorme pista da ballo all’aperto: alle estremità della via c’erano due palchi che si fronteggiavano, su cui due bands di veterani, un quartetto e una piccola orchestra di fiati d’una quindicina di elementi, si stavano alternando in frenetici mambi, rumbe e cha-cha-cha; tra i due palchi, coppie di ballerini, per lo più attempatelle, gremivano la lunga pista scatenandosi in audaci piroette con energia da ventenni, acclamate dal nutrito pubblico ordinatamente seduto sia nella tribuna, dal lato della piazza, sia sulle sedie, disposte in più file sull’altro marciapiede. Era talmente affollato che non abbiamo trovato un solo posto libero, e per vedere qualcosa ci siamo dovuti sedere per terra sotto il palco del quartetto. La sera sono uscito nuovamente per prendere una birra con Micheal, un inglese, e ricadendo sul solito tema dei viaggi, anche lui ha contribuito ad alimentare il mio desiderio di Oriente: era stato in Thailandia, Laos e Cambogia, trovandosi splendidamente.
In ostello passavo ore sulle mappe, progettando itinerari che puntualmente, ascoltando nuovi racconti appassionati su altri posti che non avevo ancora considerato, mandavo all’aria; unica costante, non fermarsi troppo in nessun posto, per cui mi sono ripromesso di riprendere il viaggio verso il Guatemala già all’indomani. Quella stessa mattina m’è giunta la notizia definitiva che Roberto non sarebbe venuto: niente più appuntamenti, sarei rimasto da solo fino alla fine del viaggio. A questo punto potevo anche decidere di trattenermi più tempo, ero libero anche da quell’impegno in Guatemala, l’unico che avevo oltre al volo di ritorno, ma ho deciso lo stesso di mantener fede al mio proposito di ripartire, e di sfruttare quella stessa mattinata di lunedì per comprare l’imperdibile amaca, anzi, per comprarne due: una per me e una promessa a un’amica. Merida vantava un’illustre fama per l’ottima e inconfondibile fattura delle sue amache: i maya della zona le lavoravano artigianalmente nei loro villaggi e poi le portavano in centro per venderle, ed era un prodotto così popolare che in ogni via se ne vedevano sempre spuntare da un negozio, su una bancarella, o sulla spalla di qualche venditore ambulante. Ne ho parlato con Claudia, una ragazza svizzera molto graziosa che avevo conosciuto il giorno prima lì in ostello: mi ha detto che anche lei aveva intenzione di acquistarne una, e un’altra voleva comprarla la sua amica, che ha subito chiamato per proporle di andarci tutti insieme, invitandola intanto a sedersi con noi. Finora l’amica l’avevo vista solo di sfuggita, ma ne ero rimasto colpito, era carina e aveva un portamento molto elegante; ora usciva appena dalla doccia, e aveva i bei capelli neri ancora bagnati che le cadevano sul viso, donandole un particolare fascino tenebroso e selvaggio. Avevo sperato che la chiamasse, ed ero contento che venisse a unirsi al nostro tavolo; mi sono presentato, si chiamava Barbara, e con lei, a differenza di Claudia che conosceva un po’ d’italiano, dovevo parlare in inglese, aumentando la terribile confusione di lingue che avevo avuto in testa fin dal primo giorno. Loro avevano ancora qualcosa da fare in ostello: ci siamo dati appuntamento per le undici in un bar della piazza, e nel frattempo mi sono incamminato per fare altri giri. Per strada uno dei tanti venditori ambulanti di amache mi ha chiamato ad ammirare le sue creazioni, e mi ha chiesto di dove fossi; quando gli ho risposto di essere italiano lui ha subito ribattuto: «Ahh, italiano… Los italianos son como los mexicanos: no llevan dòlares, solo llevan dolòres», e tutti e due ci siamo messi a ridere; quella frase sui messicani, che anziché portarsi dietro i dollari si portano i dolori, era una specie di loro tormentone, che avrei sentito ancora in altre occasioni. Poco più avanti, sulla stessa strada, mi ha avvicinato un simpaticissimo vecchietto, un altro venditore maya con le sue amache ben piegate sotto il braccio, e ha cominciato ad aprirle tutte per farmi apprezzare le diverse misure e lavorazioni di tutti i suoi modelli, mostrandomi anche, come facevano molti di loro sia in strada che nelle botteghe, le foto della sua famiglia impegnata nella lavorazione. Ho finito per comprarne una, avvisandolo di aspettarmi lì dopo le undici perché probabilmente ne avremmo comprate altre tre. All’appuntamento però c’era solo Barbara, mi sono seduto con lei al tavolo, e mentre aspettavamo Claudia ho sfoggiato la mia nuova amaca, parlandole dell’amabile personaggio che avevo incontrato, che poco dopo sono andato a chiamare: lui è venuto con me al bar e ha messo nuovamente in mostra tutto il suo campionario, senza però che Barbara trovasse i colori che voleva; io invece ne ho approfittato per comprare da lui anche la seconda. Lo abbiamo salutato dicendogli che se non avessimo trovato altrove i colori che Barbara aveva in mente, avremmo ricercato lui al solito posto. Intanto si è fatto piuttosto tardi, Claudia non si vedeva e Barbara mi ha spiegato che si erano lasciate un po’ alterate per una discussione; non era niente di serio, diceva, era tuttavia presumibile che non venisse più, quindi abbiamo lasciato il bar e siamo partiti insieme alla ricerca della sua amaca. Ne abbiamo trovata solamente una con i colori che lei desiderava, ma costava di più, e poi anche lei era rimasta colpita da quel simpatico vecchietto maya, e alla fine aveva deciso di volerla comprare da lui. Siamo tornati a cercarlo, stavolta però non c’era, quasi certamente era già sulla strada per tornare al suo villaggio, perciò abbiamo rinunciato al terzo acquisto e ci siamo intrattenuti insieme a chiacchierare e a passeggiare, fino a che non è arrivata la sera, che abbiamo consumato insieme, piacevolmente, tra i locali del centro.
Ci siamo svegliati in tempo per fare l’ultimo tentativo dal venditore di amache, anche questo senza esito, prima di prendere un taxi per la stazione degli autobus, da cui Barbara sarebbe partita per Valladolid e io per Uxmal, l’altro grande sito maya dello Yucatan, dove aveva deciso di venire anche Micheal, che si è aggiunto a noi nel taxi. Dall’autobus si scorgevano le semplici e più che modeste dimore dei contadini: piccole capanne con l’uscio aperto che davano sulla strada, senza niente che potesse assomigliare a una porta, con dentro solo un angolo per cucinare, qualche grossa pietra per sedersi, e l’irrinunciabile amaca stesa davanti all’ingresso, nel posto più arieggiato. Terminata l’interessante visita all’antica città, ho lasciato anche Micheal, che è andato a cercare l’autobus per la sua prossima destinazione; ero di nuovo solo ed ero anch’io pronto per una nuova tappa: un camioncino che faceva il servizio bus mi avrebbe portato a Muna, un paese poco distante da dove avrei preso l’autobus notturno per arrivare il mattino seguente a Chetumal, al confine col Belize. La visita alle rovine era stata estenuante, soprattutto per il caldo afoso che per tutto il giorno non ci aveva mai lasciato, ma l’ho dimenticato presto: è bastato a rinfrancarmi il dolce sorriso che mi ha regalato la giovane maya alla quale avevo chiesto l’indicazione per Muna. Sono montato sul camioncino e mi sono seduto sulla panca di legno, dove le mie nuove compagne di viaggio, cinque donne che lavoravano nell’area archeologica, mi avevano fatto spazio; erano tutte sulla quarantina, e per tutto il tragitto hanno giocato con me, tra incessanti risatine, per decidere quale di loro sarebbe potuta diventare la mia fidanzata.