Dormire in quelle condizioni, su un sedile strettissimo che dovevo anche dividermi con lo zaino, per di più sballottato su un percorso malridotto e pieno di curve, con i più deboli di stomaco che di tanto in tanto si sporgevano dai finestrini per liberarsi, è stata un’impresa piuttosto ardua, ma il sonno è riuscito ogni volta a vincere la sfida con i continui bruschi risvegli, fino alla mattina, a giorno fatto, quando anche il sonno s’è arreso davanti alla vista dei paesaggi ancora verdissimi dell’ultimo scorcio di montagna, del fiume che si faceva sempre più grande scorrendo al fianco della strada, e dei gruppetti di macachi che si affacciavano sulla via per dare il buongiorno a tutti i passanti.
Lasciatoci alle spalle il tratto di montagna, che ormai s’intravedeva solo, sfumato oltre la cappa di foschia, si sentiva netta la differenza di clima; c’era un’aria pesante, immobile, calda, con un’umidità asfissiante, si faceva fatica a respirare: nell’arco di una nottata sembrava fossero passate un paio di stagioni. Abbiamo approfittato della prima sosta per rinfrescarci e per fare colazione, mentre il pullman veniva ripulito, come di consueto, dalle numerose scie rimaste sotto i finestrini, postumi di un viaggio burrascoso per molti dei passeggeri. Nell’ultimo tratto, infine, s’è messo a piovere, rinfrescando un pochino e aumentando progressivamente d’intensità, fino a che, arrivati a destinazione, abbiamo trovato ad accoglierci un violento acquazzone. Ho cercato riparo con Heida, una viaggiatrice svizzera, e con lei, sotto la pioggia battente, ho passato le poche ore a Dehra Dun, una città che al primo impatto appariva piuttosto scialba, con un centro urbano caotico e congestionato, e una periferia povera e terribilmente trascurata. A risultare tutt’altro che scialba era invece Heida, che a quarantasei anni aveva avuto il coraggio di lasciare il suo prestigioso e ben remunerato lavoro in Svizzera, e aveva iniziato a girare il mondo quasi a tempo pieno, in compagnia dalla sofisticata attrezzatura fotografica con cui documentava le sue avventure; quando poi le veniva nostalgia del marito, pilota d’aerei, lo chiamava, e si faceva raggiungere in qualsiasi sperduto angolo del mondo per passare qualche giorno insieme, come avrebbe fatto da lì a pochi giorni, per il loro prossimo incontro, a Delhi.
Heida era arrivata in India dopo aver girato Afghanistan e Pakistan, due nazioni che l’avevano entusiasmata. Aveva fatto una lunga sosta anche in Kashmir, e mi ha chiarito alcuni dubbi sulla situazione che avevo trovato durante il mio soggiorno, sulle persistenti tensioni religiose e sulla cospicua presenza di militari in cui mi ero imbattuto: circa due settimane prima del mio arrivo a Srinagar, all’uscita da una cerimonia di matrimonio, un terrorista aveva sparato sulla folla uccidendo tre ragazzini; per due giorni la città intera era rimasta bloccata da uno sciopero generale, e anche i giorni successivi erano stati tutt’altro che tranquilli. Io ero stato lì e non ne avevo saputo nulla.
Mi piaceva il suo modo di viaggiare, la sua curiosità, l’interesse che dimostrava, la voglia di conoscere, di informarsi, la passione che metteva nei racconti, l’attenzione per i dettagli e per tutto quello che si nascondeva oltre l’apparenza: m’incuriosivano tantissimo le sue foto, e le ho detto chi mi sarebbe piaciuto vederle. Anche lei sembrava molto contenta di mostrarmele, ha preso la sua macchinetta e ha cominciato a scorrerle, commentandole, ripercorrendo tutto il suo viaggio e soffermandosi a lungo sull’Afghanistan, sui tanti drammi e sulle atrocità di cui era stata testimone: mi parlava di gente incredibilmente cordiale, e dei disastri che i nostri eserciti occidentali in supposta missione di pace avevano provocato tra le ormai stremate popolazioni locali, già provate da decenni di guerre. Raccontava inoltre che molte donne, in quel paese, continuavano a portare il burka malgrado non fosse più obbligatorio, e non sempre e solo per una forma di integralismo religioso, ma molto spesso come gesto di protesta, di rivendicazione sociale e culturale nei confronti degli statunitensi, venuti lì a imporre i loro costumi con le armi.
Dopo aver fatto due passi, approfittando di qualche breve intervallo tra gli interminabili acquazzoni, ci siamo fermati a mangiare in un ristorantino, uno dei pochi che lavoravano il 15 Agosto, festa dell’indipendenza; le specialità della casa erano i piatti tipici dell’India meridionale, e per me è stata un’eccellente opportunità per assaggiare qualcosa dell’ottima cucina alla quale avevo rinunciato scegliendo il nord come itinerario di viaggio. Il tempo a nostra disposizione s’è esaurito in fretta, e prima di dividerci, e di riprendere il cammino per le nostre rispettive destinazioni, Heida mi ha accompagnato alla stazione del treno, dove come al solito mi sono dovuto accodare a una lunga fila per prendere i biglietti, e anche qui, come invariabilmente accadeva in simili occasioni, c’era sempre qualcuno che provava a “fare l’indiano”. Non era solo un vecchio luogo comune, al contrario, mai taccia al mondo fu più indovinata: era letteralmente stupefacente, o, per dirla meglio, semplicemente inconcepibile come gli indiani, abitualmente così miti e cordiali, sempre inclini a riverenze e cortesia, potessero improvvisamente trasformarsi in belve fameliche davanti a una fila o a un posto da conquistare sui mezzi pubblici. Si buttavano in mezzo con una sfacciataggine inaudita pur di rubarti il posto, ti scostavano via e poi si voltavano altrove dandoti le spalle, fingendo di non averti visto, e i più bravi seguitavano a fare egregiamente la parte degli indifferenti anche se provavi a chiamarli indispettito, o perfino se gli davi dei colpi sulla spalla: da esemplari e navigati professionisti dell’impassibilità, loro non tradivano nessuna reazione. La cosa curiosa è che spesso, seppure poco prima ti avevano scansato in modo burbero per farsi posto, una volta consolidata la posizione e resa inattaccabile, riacquistavano la loro calma serafica e tornavano a dispensare dolci sorrisi, e tutti amici come prima.
Mi toccava un’altra estenuante sgroppata fino a Varanasi, anche molto più lunga delle precedenti, ma per la prima volta si trattava di un viaggio in treno, cosa che avevo atteso con una certa impazienza dopo i racconti di amici che erano stati in India prima di me: sentirne parlare da tutti loro, e con un ricordo così vivido, aveva collocato i treni tra i passaggi più caratteristici del mio immaginario indiano. In realtà la cosa che colpiva di più chi veniva a visitare l’India era la capillarità della rete ferroviaria e lo spaventoso affollamento di gente sopra i treni e alle stazioni, pareva che gli indiani non facessero altro che viaggiare, ma anche i treni stessi, un po’ malandati ma sufficientemente comodi ed efficienti, erano assolutamente singolari, con le loro batterie di enormi ventilatori piantati sul soffitto, così tanti da ricoprirne l’intera superficie, veri e propri arsenali spianati che sparavano aria in qualsiasi direzione.
La notte in cuccetta è stata decisamente più riposante della precedente, ma la giornata che ne seguiva, da consumare quasi interamente in treno, appariva senza fine; fuori passavano le immagini di una campagna indiana insospettabilmente rigogliosa, di bei prati verdeggianti, di campi coltivati, di contadini al lavoro, di villaggi minuscoli e isolati, di qualche tempio, e di innumerevoli vacche che sventolavano la coda per scacciarsi le mosche di dosso. Ero l’unico straniero su tutto il treno, ed ero innegabilmente oggetto di curiosità, soprattutto dalla mattina, quando eravamo rimasti in pochi dopo che il convoglio aveva cominciato a svuotarsi nei centri più importanti. Nelle piccole stazioni successive, dove le fermate erano continue e non di rado anche abbastanza lunghe, capitava che scendessi per sgranocchiare qualcosa o per fumare una sigaretta, e regolarmente vedevo che molti sulla banchina s’incantavano a fissarmi, altri si avvicinavano a passo veloce per inchiodarsi proprio davanti a me, e restavano lì, come pietrificati, forse in attesa di qualche mio gesto. Io provavo a salutarli e a sorridergli, ma il più delle volte loro parlavano solamente hindi, e non potendo godere oltre della loro magnifica spontaneità, le nostre conversazioni erano destinate a esaurirsi lì; con quelli che parlavano inglese, invece, le poche rapide battute che scambiavamo raccoglievano sempre un pubblico entusiasta che s’infoltiva a vista d’occhio. Era la medesima scena che si ripeteva un po’ ovunque fin dal mio arrivo, ma in particolare succedeva in località come queste, nei centri più piccoli, più remoti, dov’erano meno abituati a vedere un volto occidentale.
Mi sono messo a parlare con uno dei ragazzi che viaggiavano nel mio stesso vagone, mi aveva offerto della frutta, ed io a lui una sigaretta che aveva subito acceso; gli ho chiesto se non fosse proibito fumare nello scompartimento, ma il treno era mezzo vuoto, i finestrini tutti aperti, e pareva che problemi non ce ne fossero. In effetti nel nostro vagone c’eravamo solo noi, così ne ho approfittato anch’io, approssimandomi al finestrino. Mentre continuavamo a chiacchierare, s’è presentato il controllore, che l’ha sgridato per qualcosa, e lui ha subito buttato la sigaretta; poi hanno scambiato qualche altra parola, ancora con i toni del rimprovero: il ragazzo ha cambiato sedile, e il controllore ha proseguito il suo giro d’ispezione. Pensando a un divieto di fumo, non riuscivo a capire perché a me non avesse detto niente, e soprattutto perché il ragazzo si fosse allontanato, perciò sono tornato da lui a chiedere spiegazioni: perché non poteva fumare se a me era stato concesso? Mi ha spiegato che la discussione non c’entrava con la sigaretta, ma era stato sgridato semplicemente perché mi stava parlando: io ero straniero, lui era indiano, quindi era tenuto a starmi lontano. Sono rimasto sconcertato, non ne capivo il senso, e comunque, se fosse accaduto ancora, sarei di certo intervenuto. Più tardi, da un altro controllore, è arrivato un nuovo accenno di rimprovero per un ragazzo che era venuto a sedersi di fronte a me insieme a due suoi amici; stavolta, però, il richiamo era più blando e, di conseguenza, caduto nel vuoto senza necessità di approfondire la questione. Il nuovo compagno di viaggio si era presentato con i suoi grandi occhi neri che gli brillavano di eccitazione, aveva una voglia pazza di comunicare e di confrontarsi con me, e per farsi capire cercava di far ricorso a tutte le sue risorse linguistico-espressive, dove un inglese assai incerto era ben assistito dagli occhi vivi e da un sorriso più chiari ed eloquenti che mai. Mi raccontava, con soddisfazione, di tutti i suoi progetti da bravo ragazzo, completamente dedito alla famiglia e allo studio: presto avrebbe conseguito la laurea, si sarebbe procurato un buon lavoro, e poi avrebbe trovato una bella e brava ragazza con cui sposarsi. Si compiaceva del fatto che anch’io, come lui, non fossi fidanzato, e affermava con orgoglio che adesso pensava soltanto a studiare per costruirsi il futuro, e non poteva pensare ad avere una ragazza prima di aver trovato lavoro e di aver scelto quella giusta da prendere in moglie: era un ragazzo serio, ripeteva, e fino allora non si sarebbe mai lasciato distrarre dalle altre donne. Come mi era già successo sull’autobus per Naggar, sentivo di nuovo evidenziarsi quella stessa distanza, che difficilmente anche in questa circostanza avremmo potuto colmare, per tutte le differenti certezze con cui eravamo cresciuti, per la diversa immagine che avevamo maturato delle donne, e per la difficoltà di approfondire le cose, costretti, com’eravamo noi, in un vocabolario totalmente inadeguato: ancora una volta, non sapevo come spiegargli che il mio punto di vista su quel genere di distrazioni era piuttosto discordante, che ai miei occhi una passione vera, anche se fugace, non poteva togliere nulla, arricchiva solo, che per me ogni relazione con una donna aveva una sua magia irrinunciabile che prescindeva dai progetti per il futuro, in cui il matrimonio poteva essere forse un punto d’arrivo ma mai quello di partenza; non sapevo proprio come dirglielo, così ho evitato di farlo, non volevo essere né apparire irriverente verso le sue convinzioni.