La scena del rimprovero s’è ripetuta tale e quale, per la terza volta, in una delle innumerevoli stazioni in cui il treno sostava: io ero rimasto seduto al mio posto, e da fuori un ragazzo, l’ennesimo venuto ad attaccare discorso, si era avvicinato al finestrino, giusto il tempo di scambiare qualche convenevole prima che un poliziotto gli intimasse di allontanarsi. Stavolta però è stato il ragazzo stesso a cercare di spiegarmene il motivo: diceva che i poliziotti erano preoccupati per i troppi furti di bagagli che si erano verificati in quella zona ai danni dei turisti, e che facevano bene a controllare, perché gli indiani non meritavano una reputazione così infamante per colpa di qualche ladruncolo balordo, sicché, per la mia tutela, anche lui doveva salutarmi, raccomandandomi di tenere sempre gli occhi aperti.
Varanasi, la città sacra per i fedeli hindu, ultima meta per tante vite che arrivavano apposta per spegnersi sulle sponde del Gange ed essere così sottratte al ciclo delle reincarnazioni, ha visto il mio treno giungere in stazione quando ormai il sole era tramontato da un po’, benché lo aspettasse molto prima. Sfogliando la guida ero rimasto impressionato dalla gran quantità di raccomandazioni, moniti e consigli su come cavarsela tra i molteplici pericoli di quella città, sembrava che appena uscito dalla stazione dovessi guardarmi da una folla assatanata di briganti, malviventi e truffatori schierati in forze nella sola trepidante attesa del mio arrivo; la cosa mi aveva turbato soprattutto perché, fino allora, la stessa guida non si era mostrata affatto allarmista riguardo le altre località in cui ero stato, perciò qualcosa di vero, o comunque di anomalo, doveva pur esserci.
Sono sceso dal treno in compagnia di un ragazzo del luogo, con cui avevo diviso lo scompartimento nell’ultima parte del tragitto: confidavo in lui per uscire indenne dal primo impatto con la città, notoriamente il momento più rischioso, considerando l’assoluta mancanza di punti di riferimento. Gli ho chiesto di accompagnarmi alla biglietteria, così da garantirmi subito un posto sul treno per la tappa successiva, ma appena lasciato il binario ci ha fermato un tizio, che si è messo a parlare con lui, finché il mio accompagnatore non s’è girato a salutarmi dicendomi di seguire l’altro, che mi avrebbe condotto dove desideravo. Quel passaggio di consegne mi aveva lasciato ancora fiducioso: probabilmente si conoscevano, e in ogni caso, se mi aveva affidato a lui, doveva essergli sembrato un tipo a posto. Il tipo a posto mi ha convinto immediatamente a lasciar stare la biglietteria, indicandomi la lunga fila e assicurandomi che l’indomani mattina sarebbe stato molto meno affollato; guarda caso, aveva un risciò proprio lì davanti, dove lo aspettava un suo amico, potevano accompagnarmi loro. Cominciavo a nutrire una prima dose di diffidenza, ovviamente insisteva a non farmi andare in biglietteria unicamente per garantirsi il cliente senza perdere altro tempo, ma era tardi, io ero stanco, e l’idea di andare subito in cerca di una cena e di un letto mi ha conquistato senza troppe difficoltà, facendomi accettare la proposta.
Per evitare brutte sorprese e perdite di tempo, ho deciso di affidarmi alle raccomandazioni della guida, la quale tra gli alloggi economici ne segnalava uno con particolare enfasi, riservandogli una presentazione coi fiocchi, mettendo però in guardia verso i possibili, anzi, frequenti raggiri: chiedendo di quel posto si rischiava di finire nelle peggiori topaie della città, alle quali avevano messo nomi molto simili pensati apposta per generare confusione e finti malintesi, proprio per approfittare dell’ottima reputazione che il primo s’era guadagnato. Ho chiesto ai due di condurmi lì, facendo bene attenzione a scandire ciascuna sillaba in modo chiaro e inequivocabile, mostrandogli la guida, nota a loro anche più che a me, e chiarendo con fermezza che non volevo finire in nessun posto che non fosse inconfutabilmente quello; indiscutibilmente, incontrovertibilmente, innegabilmente quello. Non hanno prestato troppa attenzione a quelle puntualizzazioni, loro erano determinati a propormi tutt’altro. Conoscevano dei posti che non avevano bisogno della pubblicità della guida, ma che chiunque a Varanasi riconosceva come i migliori, i più belli, più puliti e più economici; dovevo solo offrirgli l’opportunità di mostrarmeli, senza alcun impegno, e poi, se non mi fossero piaciuti, mi avrebbero portato dove volevo, garantivano però che appena avessi visto uno di quegli alloggi mi ci sarei fermato sicuramente, e che dopo non avrei più smesso di ringraziarli. Ho risposto che ero troppo stanco per andare ancora in giro, e pur non dubitando della bontà della loro proposta, dovendo stare soltanto per una notte, mi accontentavo dei consigli della guida. Avevano insistito con una tale caparbietà, che quando alla fine hanno desistito, ormai apparentemente rassegnati, mi sono illuso di avercela finalmente fatta.
La città era interamente al buio, e non era una novità per Varanasi, ma un ulteriore motivo d’apprensione per me, con i due ragazzi, sempre meno amichevoli dopo tutti i miei rifiuti, che avevano lasciato la via principale per andarsi a ficcare nelle stradine via via più strette della città vecchia, fino a infilarsi in un intrico di viuzze completamente deserte, nascoste dall’oscurità, dove il risciò s’è arrestato improvvisamente, e per un attimo anche il mio cuore. Non smettevo di rimuginare sulle note della guida: diceva che esistevano vere e proprie organizzazioni criminali che s’interessavano ai turisti, soprattutto a quelli che viaggiavano soli, che in media quasi ogni mese c’era qualcuno che spariva nel nulla, e che tra le principali occasioni d’approccio che usavano i criminali c’erano i risciò fuori alle stazioni; in più affermava che dopo il tramonto la città vecchia diventava molto pericolosa, e che per questo, passate le ventidue, tutti gli alberghi tenevano i portoni chiusi a chiave.
Mi hanno detto di scendere, perché quei vicoli erano così stretti da non lasciar passare nemmeno il piccolo risciò, e ho dovuto continuare a piedi, seguendo uno dei ragazzi. Abbiamo camminato tra tenebrosi e inquietanti anfratti senza incontrare anima viva, fino ad arrivare alla guesthouse, dove la notte nera e il black-out elettrico non davano modo neppure di vedere se ci fosse qualche insegna; oramai ero sempre più persuaso di non essere nel posto che volevo, e appena varcata la soglia, al primo sorriso del proprietario che ci accoglieva da dietro il bancone, ho chiesto se il nome della guesthouse fosse corretto, scandendolo una volta ancora per enfatizzare di nuovo con chiarezza tutte le sillabe. Il proprietario ha subito assunto un’espressione bonaria e comprensiva, come quella di un adulto che rimbrotta un ragazzino sospettoso rimproverandogli la sua immotivata diffidenza, e con il tono più rassicurante che gli sia riuscito d’impostare, ha replicato: «Ma quante volte ho dovuto rispondere a questa domanda! Si, puoi stare tranquillo, è quello giusto, sei proprio nel posto che stavi cercando».
Ovviamente non era la guesthouse indicata dalla guida, e non ero per niente tranquillo a rimanere lì: quel tizio aveva un sorriso beffardo e uno sguardo sinistro che mi inquietavano. Il problema era che anche il ragazzo del risciò aveva cambiato completamente atteggiamento, le mie titubanze l’avevano reso visibilmente più indisponente, e il pensiero di uscire un’altra volta fuori con lui, dopo avergli negato di nuovo, definitivamente, la sua percentuale sulla mia notte, mi lasciava ancor meno tranquillo; tanto meno mi sembrava prudente mandarlo via, pagandogli il suo pur pessimo servizio, per poi uscire da solo a quell’ora di notte, con lo zaino in spalla, a cercare qualcosa chissà dove.
Non era tanto l’esser stato fregato che fosse duro da digerire, quanto il sentirsi fregato dopo essere stato messo in guardia, era insopportabile, ma delle tre soluzioni che mi si proponevano, restare lì, provare a riprendere il risciò o andarmene via da solo, forse la prima era la meno minacciosa, così, animato da ben poco entusiasmo, gli ho chiesto di mostrarmi la stanza, rassegnato a dovermi fermare. Mi ha accompagnato per le scale con la torcia, e poi per l’angusto corridoio, fino alla camera, che, non me ne voglia il nostro amico, faceva oggettivamente schifo: era un tugurio stretto e senza finestre, non c’era nemmeno lo spazio per muoversi, si riusciva a malapena a camminare intorno al letto, anzi, mi correggo, più che un letto era una tavola di legno che stava nel mezzo, ricoperta da un cuscinetto alto due dita che faceva da materasso. Il bagno era sul terrazzino, un piano più in alto: dietro una porta di lamiera c’era un pezzo di specchio tenuto appeso con un filo, un vaso alla turca, e un secchio pieno a metà, sistemato sotto un rubinetto che non smetteva di gocciolare; il rubinetto, che spuntava dalla parete, unito a quel secchio che gli stava sotto, avevano insieme le funzioni di sciacquone, di lavandino, di bidet e di doccia. Almeno non sembrava troppo sporco, per una notte potevo farmelo andar bene, ma cominciavo ad avere un’intensa nostalgia di Naggar.
A questo punto ero pronto per la seconda fregatura: posato lo zaino, ho chiesto indicazioni per un dhaba, o un qualsiasi altro genere di locale dove potessi mangiare qualcosa o acquistare del cibo. Lui, incredulo, o per lo meno atteggiandosi a tale, ha sbarrato gli occhi. Ma ero pazzo? Non avevo letto tutte le raccomandazioni scritte sulla guida? Uscire di notte, per giunta durante un black-out, con quel buio nero, era proprio una follia! …Ho dovuto per forza mangiare lì, sulla terrazza, dove mi hanno servito una cena mediocre ai prezzi di un ristorante di buon livello. Quella cena però è costata anche a lui più di quanto potesse immaginare: assieme a me ha cenato una ragazza francese, una tipa un po’ sprovveduta che aveva fatto confusione invertendo i nomi indicati sulla Lonley Planet, e malgrado avesse avuto la fortuna di giungere davanti alla guesthouse originale, si era impuntata per farsi condurre nell’altra dal nome simile, la tana del tenebroso truffatore, che tra l’altro era apparso pure a lei un po’ strano, con quei suoi scostanti occhi da pazzo che cambiavano continuamente espressione, ma rassicurata dalle referenze della guida aveva già prenotato tre o quattro notti di soggiorno, la classica gita in barca sul Gange di prima mattina, e ogni altro genere d’escursione che lui le aveva prontamente suggerito. Le ho aperto gli occhi, e in tarda serata il locandiere psicopatico, dopo averci visto cenare insieme, se l’è vista arrivare, agitatissima, a cancellare tutto il cancellabile e ad annunciare che sarebbe ripartita all’indomani, senza voler dare altre spiegazioni. Fin dall’inizio non dovevo piacergli molto, ma dopo quel fatto i suoi instabili mutamenti d’umore e d’espressione si sono convertiti, nei miei confronti, in un solo costante ed esplicito messaggio: un infuocato sguardo di odio.
Mi sono messo a letto che era già parecchio tardi, e dovevo risvegliarmi in piena notte per raggiungere il Gange, dove a dispetto del suo inquinamento, con valori tremila volte maggiori a quelli che rendono le nostre acque non balneabili, tutte le mattine, al fare del giorno, si svolgevano le cerimonie hindu con preghiere e abluzioni. Ho messo la sveglia per le quattro e mezzo. Soffrivo oltremisura le alzatacce come questa, le soffrivo tanto che una volta, dovendomi alzare a un’ora del genere, il mio inconscio, manifestandosi nella sua personificazione onirica, m’è venuto in soccorso cercando di mascherare la violenta aggressione acustica della sveglia con un amorevole inganno: la sveglia aveva preso a strillare i suoi insopportabili e martellanti acuti nel bel mezzo del mio sonno più profondo, ma io me ne restavo sereno e impassibile, comodamente seduto sulla poltrona del mio ufficio, a dare un soddisfatto benestare chiedendo al mio solerte collaboratore di spegnerla e di proseguire con la successiva, perché mi pareva evidente che questa funzionasse bene. Stavo sognando d’essere un collaudatore di sveglie!