Stavolta è filato tutto liscio: sono riuscito ad alzarmi, seppure un po’ a fatica, e ad uscire, brancolando assonnato, tra le prime luci dell’aurora, finché il groviglio di vicoli non s’è aperto al cospetto della divinità, affacciandosi ossequioso ai bordi del sacro Gange.
L’immagine dell’alba sul fiume era sensazionale. Sulla sponda opposta, una striscia verde di vegetazione incontaminata, selvaggia e rigogliosa, si distendeva sulle tinte scure dell’acqua, che sotto un cielo ancora poco illuminato dai caldi colori della nuova mattina, creava un effetto cromatico di sorprendente armonia; dov’ero io, invece, sull’immensamente popolata sponda occidentale, l’ammasso di case sembrava quasi voler scendere al fiume dagli scaloni dei ghat, l’interminabile fila di gradinate che dalla città vecchia entrava nelle acque sacre. Lungo tutto il fiume c’erano fedeli che andavano a bagnarsi offrendo alle acque petali e ghirlande di fiori, e consumando i loro cerimoniali liturgici; alcuni ghat erano anche utilizzati per la cremazione dei corpi, le cui ceneri venivano poi sparse nel fiume per assicurare alle anime dei cari la salvezza e l’accesso diretto al paradiso.
Camminavo lungo il corso d’acqua, costeggiando la divinità hindu e i fedeli in preghiera, che aumentavano con l’approssimarsi ai ghat più centrali, come aumentavano sul fiume le infinite imbarcazioni gremite di turisti, forse in numero ancor maggiore che i fedeli stessi, che si godevano l’imperdibile gita barcaiola con vista su cerimonia e sperpero di fotografie digitali.
Ho continuato a passeggiare per gli angusti vicoli interni che giravano intorno alle case, si aprivano e si chiudevano come in un labirinto, tra le vacche, la confusione, il viavai di gente e di pellegrini, che a torso nudo si fermavano davanti ai numerosi templi per raccogliersi a pregare prima di scendere giù al fiume per le abluzioni; tra quelle stradine era più penetrante che mai l’impatto con le atmosfere hindu, c’era un alone di sacralità, persino l’odore dell’India era più forte che in qualsiasi altro posto. Templi, negozi, e anche gli ingressi delle case erano spesso decorati con figure sacre della religione hindu, simboli come l’om, il fior di loto, o il tridente di Shiva, o ancora la svastica, che almeno qui aveva mantenuto la sua originaria espressione positiva: un simbolo di buon auspicio che rappresentava il sole e la ruota del tempo; io però seguitavo a far fatica a scindere quel simbolo dalle terribili immagini impresse nella mia testa, e ogni volta che la vedevo avevo un sussulto. Per le vie centrali abbondavano le bancarelle con tutto l’occorrente per i rituali religiosi, vendevano incenso, fiori, fiaccole, anforette per raccogliere l’acqua del Gange; c’era chi si faceva radere barba o capelli da qualcuno dei tanti ambulanti attrezzati con schiuma e lamette, e c’erano bancarelle con frutta e verdura, dove ho pure assistito in diretta a un singolarissimo furto: una scimmietta passava davanti a quel bell’assortimento alimentare, guardandosi intorno con aria distratta e passo flemmatico, poi, improvvisamente, s’è avventata su un mango ed è scappata via salendo su un tetto, per gustarselo in tutta tranquillità, tra le urla furibonde della povera venditrice.
Oltre alle poche concitate ore trascorse a Delhi, questa era la prima vera sosta in una delle affollate metropoli indiane, e qui la percezione della povertà si faceva drammaticamente più netta. Guardavo gli altri turisti, e guardavo me: non so come facessimo, ma riuscivamo a passare in mezzo alla miseria con gelido distacco, o perlomeno facevamo di tutto per fingerlo, forse perfino a noi stessi.
Sono sceso ancora sulla riva del Gange, ad ammirare la devozione con cui gli hindu andavano a purificarsi nelle acque: se ne poteva percepire la magia, l’essenza divina; sono rimasto per un po’ a osservare, ammaliato, finché non sono andato anch’io a bagnarmi, a consumare il mio personale rituale. Sentivo gli occhi di Shiva, i tre occhi di Shiva, tutti puntati su di me.
Prima che si facesse troppo tardi sono tornato in stanza, ho controllato che nello zaino non mancasse nulla, e ho lasciato la guesthouse sotto l’ennesimo sguardo torvo dello scorbutico albergatore. Accompagnato da due ragazzi col risciò, che mi avevano dato il suggerimento sperando, come al solito, in una generosa commissione sui miei acquisti, sono andato a fare un giro nell’antico quartiere dove si produceva la pregiata seta di Benares (dal vecchio nome della città), ad ammirarne la fine lavorazione tra gli assortimenti di capi coloratissimi che si riuscivano a scorgere nei piccoli laboratori. Subito dopo sono andato alla stazione a fare il nuovo biglietto e a liberarmi dello zaino per il tempo che ancora mi restava; al deposito bagagli, però, non volevano saperne di prenderlo in custodia, poiché non aveva i lucchetti, e loro rifiutavano sdegnosamente l’onere di una così gravosa incombenza. Avevano l’atteggiamento distaccato e irritante che hanno alcuni impiegati statali in tutti gli uffici del mondo, e che in India m’era capitato di subire spesso in altre stazioni o sportelli pubblici: non si perdevano troppo in spiegazioni, già spazientiti ancora prima che si proferisse parola, ti liquidavano senza appello nel loro poco comprensibile “hinglish”, quell’originale misto di hindi e d’inglese divenuto popolare tra le città indiane e nei film di Bollywood. Se non capivi era un problema tuo, e l’epilogo infatti era invariabilmente quello, perché ci sarebbe voluto ben più dei miei pochi giorni di viaggio per riuscire a capire qualcosa di come giravano le cose in India. Poi, chissà per quale motivo, mi hanno chiesto di che nazionalità fossi, e, per una volta di più, il passaporto italiano è stato la mia miglior raccomandazione: subito si distendevano i volti e si allargavano i sorrisi. “L’Italia, il paese di Sonia Gandhi”; rispondevano sempre così, animati dall’affetto e affascinati dal coraggio di una donna che proprio a causa delle sue origini italiane, per smorzare le agguerrite polemiche dei partiti più conservatori, aveva deciso di rinunciare alla carica di primo ministro che le era stata offerta. Anche stavolta, grazie all’intercedere della celebre e amatissima Sonia, mi sono guadagnato una posizione più accomodante, e abbiamo potuto raggiungere un ragionevole compromesso: io avrei tolto dallo zaino le cose di valore, e loro mi avrebbero permesso di lasciarlo, ma senza assumersi nessuna responsabilità. Ci potevo stare, anche perché in realtà non avevo cose di gran valore, così ho fatto finta di prendere degli oggetti e di metterli in tasca, ho preso la ricevuta, e sono andato. Mi sembrava un posto sicuro e ben sorvegliato: a parte i topi che scorrazzavano spensieratamente per tutto il magazzino, pareva che il bagaglio non corresse troppi rischi.
La parte nuova della città, vicino alla stazione, non offriva un granché: non mi rimaneva che approfittare del tempo libero per tagliarmi i capelli. Il taglio dei capelli in viaggio era una specie di mia personalissima e consolidata tradizione alla quale non potevo sottrarmi, forse un modo per confondermi meglio tra la gente del posto, o almeno per illudermi di poterlo fare, sebbene alcune terrificanti acconciature che avevo visto da quando ero in India, soprattutto nei paesini di montagna, non incoraggiassero molto ad affidarsi alla loro (im)perizia. Anche per le tinte avevano un gusto alquanto discutibile: certi tizi andavano in giro con delle orrende chiazze bionde, o di un improbabilissimo rosso, su capelli nero corvino, mentre altri le chiazze di colore le avevano addirittura sulla barba.
Mi sono avvicinato piuttosto timoroso, il parrucchiere era giovanissimo e non parlava inglese, così ho cercato di spiegargli a gesti le mie intenzioni. Volevo solo dirgli di non accorciarli troppo, ma non è per niente facile indovinare ciò che un indiano abbia o non abbia inteso: quando capiscono, accennano un leggero movimento con il capo per indicarti che hanno capito, quando non capiscono, invece, accennano un leggero movimento con il capo per indicarti che non hanno capito, sfortunatamente il movimento è sempre lo stesso, un curioso dondolio, e bisogna riuscire a interpretare l’espressione, che generalmente, in entrambi i casi, è semplicemente un timido sorriso. Anche in questa occasione, dunque, non ero affatto sicuro che avesse afferrato le mie indicazioni, ma sorrideva compiaciuto, e io non sapevo cos’altro aggiungere: ho chiuso gli occhi, e mi sono consegnato a lui.
Il taglio è andato assai meglio di quanto temessi, poi il giovane artigiano del capello s’è offerto di completare il servizio con un massaggio del viso. In strada, vicino ai ghat, avevo già visto diversi indiani che facevano massaggi, avevano certamente qualche tecnica particolare, e magari la sua proposta era un gesto di solidarietà per alleviarmi il malessere interiore dovuto ai capelli perduti che giacevano mestamente sul pavimento. Ho abbozzato un gesto d’assenso, pur molto dubbioso, e lui ha cominciato a cospargermi il volto con una sfilza di creme e oli a non finire, non avevo mai avuto tante cose sulla faccia in tutta la mia vita. Il peggio, però, si è concentrato al termine della prolungata spalmatura: il mio povero viso ha subito una tortura impietosa su cui preferirei evitare di dilungarmi per non far riaffiorare ricordi struggenti, posso solo dire che, alla fine di quel trattamento, il malessere non era più solo interiore, e che sarebbe stato meglio se m’avesse dato un pestone su un piede, perlomeno sarebbe stato più rapido, e soprattutto, una volta finito, non mi avrebbe guardato con l’aria soddisfatta di chi si aspetta pure d’essere ringraziato! Che gli dici a uno che dopo averti malmenato ti guarda in quella maniera?
Senza alcun imprevisto, e con invidiabile rispetto dei tempi, qualche ora più tardi ero di nuovo in partenza. Arrivato comodamente al binario, avevo controllato le liste dei passeggeri, che come sempre erano affisse su ogni vagone, avevo trovato il mio posto, ed ero salito sul treno, il Marudhar Express, con destinazione Agra: andavo a vedere il Taj Mahal, uno dei gioielli architettonici più famosi al mondo. Il tempo continuava a mostrarsi benevolo, la pioggia di Dehra Dun era ormai soltanto un lontano ricordo, adesso non solo non pioveva, ma il cielo s’era completamente liberato dalle nuvole, presentandosi limpido e sereno per valorizzare ancor meglio i nuovi paesaggi di boschi e di prati, un’esposizione di bellezze naturali talmente ricca che sembrava d’essere in un parco. Erano tanti anche gli animali, e lungo la traversata, tra i campi verdi, ho potuto vedere un pavone da molto vicino, ed era così bello, così maestoso, da potersi anche permettere di non cedere alla vanità e di nascondere la magnifica ruota, il suo elemento più incantevole, lasciando che la lunga coda rimanesse chiusa, dietro di sé, ad accompagnare dondolando i suoi morbidi passi. Poi sono scesi i deliziosi colori del tramonto a fare da preludio a un altrettanto affascinante cielo stellato, che faceva da cappello a un mondo già vestito del buio della notte, dove l’oscurità era violata solamente dal chiarore dei fuochi e dei lumi accesi nelle piccole case dei villaggi che ci passavano accanto. Sul treno stavolta c’erano parecchi stranieri, e ho conosciuto una coppia di spagnoli; quando ci siamo presentati, e ho detto d’essere italiano, la ragazza ha risposto che l’aveva immaginato da subito, evidentemente il taglio di capelli indiano non era servito a molto.