Si meravigliavano che viaggiassi da solo, mi chiedevano cosa mi spingesse a farlo, e in ciò non differivano da tanti che anche in Italia mi ponevano la stessa domanda, manifestando le stesse identiche perplessità, perché a loro, come a quegli altri, pareva proprio una specie di strano azzardo. La verità è che viaggiare da soli era molto meno audace e molto meno noioso di quanto potesse apparirgli, semplicemente perché, a parte alcuni momenti passati effettivamente in solitudine, che per inciso, considerando che solitamente un viaggio di quel genere offriva pochi spunti alla noia, trovavo tutt’altro che spiacevoli, per tutto il resto del tempo era difficile che si rimanesse davvero soli, a meno che non ce ne fosse la volontà. La differenza era solo che la compagnia, anziché essere sempre la stessa, poteva cambiare di volta in volta: si aveva l’opportunità di scegliere in ogni occasione con chi stare, quando separarsi, e tutto questo senza alcun vincolo. Non era affatto una noia, non ci trovavo nulla di alienante, anzi, forse era vero proprio l’esatto contrario. Viaggiando da soli, infatti, si era molto più aperti a nuove conoscenze, e sembrava che lo fossero anche gli altri nei tuoi confronti; tutti sembravano molto più disponibili, era molto più facile che qualcuno s’intrattenesse per fare due chiacchiere, e, soprattutto, si comunicava molto di più con la gente del posto, proprio come mi stava accadendo in quel frangente con loro. Infatti… Erano sicuri che se io fossi stato seduto lì davanti con qualcun altro, magari scambiandoci due parole in italiano di tanto in tanto, loro avrebbero iniziato a conversare con me, o con noi, allo stesso modo? Poteva apparire un paradosso ma, da un certo punto di vista, partire da soli era forse il modo più indicato ed efficace non solo per trovare compagnia, ma per trovarsi quella migliore. Muovendosi in gruppo, poi, tutto ciò che si poteva scoprire di nuovo, si tendeva a discuterlo e commentarlo con gli amici, se invece i tuoi compagni d’avventura erano le persone che conoscevi lì, e che nella maggior parte dei casi vivevano in quel posto, le impressioni che avevi nella testa dovevi per forza dividerle con loro, ed era un ulteriore confronto con quella realtà, che ti permetteva di esplorarla e di assorbirla ancora più in profondità. Per di più, e questo lo consideravo un altro vantaggio innegabile del viaggiare da solo, con gli itinerari del tutto improvvisati che avevo ormai l’abitudine di seguire, senza nessuna meta prestabilita, percorrendo piuttosto le strade secondo gli stati d’animo che esse stesse mi suggerivano, era sempre arduo decidere quando fermarmi e quando ripartire, e, al momento della partenza, era altrettanto difficile scegliere la destinazione ideale: per me, in quelle condizioni, era già complicato ogni volta mettermi d’accordo con me stesso, doverlo fare pure con qualcun altro sarebbe stata una fatica mostruosa!
Fuori il paesaggio continuava a trasformarsi, e con esso tutto il resto, dai vestiti indossati dalla popolazione rurale ai modi di costruire le case nei piccoli villaggi; scorrendo il paese, anche nelle poche ore di tragitto, si potevano indovinare attraverso il vetro le abitudini che si modificavano, i diversi stili di vita, scene rubate alla quotidianità che, in una nazione sterminata e con realtà differenti come l’India, assumevano contorni sempre nuovi. Intanto si era fatta sera, e sotto il tetto di ventilatori, che pompavano aria in ogni angolo, si cominciava a sentire un po’ meno caldo. Seduti al nostro fianco, oltre il corridoio centrale, c’erano dei pakistani che, dopo tanti anni, avevano finalmente trovato il modo di fare un viaggio in India, a rivedere i luoghi in cui avevano trascorso l’infanzia prima dei due grandi esodi contrapposti, di musulmani verso il Pakistan e di hindu verso l’India, che avevano segnato la dolorosa separazione tra i due paesi. Sono stati loro per primi a tirare fuori da mangiare, scatenando in tutto il vagone una reazione a catena. Anche lei, la ragazza con il sari rosa, aveva portato, per sé e per il suocero, un’invitante cena fredda preparata in casa; me ne ha offerto un assaggio, ma ho visto che mangiavano con gusto e ho tenuto a freno la curiosità del mio palato. Terminata la cena, ha preso una bustina con un misto di palline di zucchero colorate, finocchio, zafferano e non so quali altre spezie, me l’ha fatto provare, e vedendo che mi piaceva mi ha detto di tenere tutta la bustina. Uno dei pakistani, un uomo con la barba bianca e un viso gentile, aveva seguito l’intero episodio, e vedendomi incerto sul da farsi e timoroso d’apparire scortese per qualche ignota consuetudine indiana, i cui principi mi erano ancora poco chiari, m’ha fatto segno di prenderlo. Lei sorrideva divertita, e io, forte dell’approvazione del pakistano, ho accettato con piacere il gentile omaggio.
Fin dal primo sguardo, Jodhpur risultava diversa dagli ultimi posti che avevo visitato, aveva un aspetto più curato, e pareva scandita da una maggiore vitalità: era già mezzanotte e vicino alla stazione, contrariamente a quanto visto in precedenza, c’erano ancora locali aperti e gente a passeggiare. Ho raggiunto la guesthouse, e prima di andare a dormire sono rimasto un po’ sulla terrazza, dove si godeva di un piacevole vento fresco e di un magnifico panorama, una vista maestosa sulla fortezza e sulla città. Sopra, il faccione tondo della luna accendeva la notte di un morbido chiarore; c’era però in lei qualcosa di diverso dal solito, non aveva le sembianze che conoscevo, aveva un’espressione differente, quella luna indiana sembrava avere un’espressione più distaccata, ma chissà, forse faceva solo finta, per non rubare la scena alla fortezza illuminata.
Così come il rosa per Jaipur, lo stesso era a Jodhpur con il blu: tutta la città vecchia era colorata della medesima tonalità, che donava alle viuzze del centro un colpo d’occhio particolarmente suggestivo. Anche qui i vicoli erano strettissimi, e si diramavano in modo fantasioso e imprevedibile, richiamando le atmosfere di Varanasi, senza però avere il forte impatto che si avvertiva nella città santa: questa ne era una versione più sobria, ma altrettanto vera e originale. Di prima mattina c’era molta gente che spazzava la strada davanti all’uscio delle proprie case, le vie, infatti, erano assai più pulite che altrove; la spazzatura c’era sempre, ma almeno qui veniva raccolta e ammassata da una parte, il che dava già una piccola parvenza d’ordine. Anche le facciate e gli esterni delle case erano ben curati, erano abitazioni modeste, ma alcuni edifici mostravano intatta la bellezza originaria del centro storico, rievocata dalle spesse mura e dai massicci portoni in legno, molti dei quali adornati di pregevoli intagli.
Non c’erano troppi stranieri, e questo contribuiva a rendere tutto un po’ più spontaneo e più autentico, e mi dava la possibilità di rifiatare dopo gli assillanti tormenti di Agra e di Jaipur, che insieme a Delhi erano le mete più gettonate per i pacchetti turistici, tanto da guadagnarsi il soprannome di “triangolo d’oro”. La città si muoveva a due velocità, secondo gli indecifrabili ritmi di vita indiana, che vedevano convivere estremi di caotica frenesia, come nel delirio del traffico cittadino, con la calma serafica che invece si respirava nelle lunghe attese in stazione, nei negozi, o negli uffici pubblici. Le vie principali erano affollate di negozietti di tessuti, dove clienti e venditori erano soliti sedersi in terra a svolgere le laboriose contrattazioni, mentre fuori gli alchimisti del chai, con il loro armamentario di pentoloni e fornelli, si adoperavano nella produzione di pozioni magiche dosando accuratamente latte e tè, con l’aggiunta di zucchero e di spezie esotiche e misteriose. Nel centro della cittadina svettava l’imponente torre dell’orologio, da lì si diramava l’animatissimo bazar, che partiva dalla piazza e s’intrufolava per tutti i vicoli circostanti fin nelle stradine più strette, tra le quali si passava a malapena, quasi chiuse dall’ingombro delle bancarelle.
All’esterno delle mura, fuori dalla città vecchia, i bambini approfittavano degli spazi più ampi per giocare in strada, dove si divertivano a correre e a far volare i tanti aquiloni che gremivano il cielo. L’aquilone, tra quelle strade, era senza dubbio il gioco più in voga; il secondo in classifica, senza falsa modestia, probabilmente ero io: per i bambini più piccoli ero uno spassoso diversivo, un elemento di novità, tanto che l’intero mio tragitto era un continuo di “hello”, di sguardi e di sorrisi. Alcuni mi salutavano saltellando felici e ridacchiando, o si avvicinavano per darmi la mano, per chiedere il nome, e subito scappavano via; i più sfacciati volevano farsi fotografare, o chiedevano penne in regalo, ma pareva lo facessero più per gioco, per assicurarsi un trofeo, che per fare elemosina. Due ragazzine, prima di trovare il coraggio di chiedermi il nome, mi hanno seguito in silenzio per qualche minuto: le avevo viste uscire da un portone mentre passavo lì davanti, e le avevo salutate, loro avevano risposto al saluto e si erano dette qualcosa, confabulando con aria furtiva, poi, senza che io me ne fossi accorto, si erano messe a pedinarmi a distanza, finché non le ho notate, mi sono fermato, e finalmente si sono decise ad avvicinarsi.
Più avanti, da una delle finestre azzurre di una casa azzurra tra tante case azzurre, mi sono sentito chiamare: era una ragazzina che s’era affacciata per chiedermi anche lei, come avevano già fatto parecchi altri lungo la via, di scattarle una fotografia. C’era un signore seduto sugli scalini, lì vicino, che le stava dicendo qualcosa, ho pensato che fosse il padre, e così, appena fatta la foto, gli ho chiesto se voleva vederla, avvicinandogli il display della macchinetta digitale; il viso gli si è illuminato, compiaciuto, mi ha fatto cenno di aspettare, ha preso carta e penna per scrivermi il suo indirizzo, e mi ha chiesto di spedirgliela. Adesso lo immagino in quello stesso vicolo, con la fotografia in mano, a mostrarla orgoglioso e impettito a tutti i suoi amici.
La sera, prima di ripartire, ho cenato sulla terrazza della guesthouse, per ammirare ancora il Forte di Meherangarh in bella vista che dominava il manto azzurro di case, mentre intorno affioravano i magnifici colori di un tramonto da libro di fiabe. Non mancava nemmeno la colonna sonora: l’accompagnamento, di cori e musiche indiane, l’ha offerto un nutrito gruppo di persone che si era radunato sulla terrazza di un altro palazzo, poco più in basso del nostro, dove una tabla e un’altra percussione di metallo, simile a dei piccoli piatti, sono stati sufficienti per ore d’entusiastico concerto. C’erano adulti e bambini, forse era una sola grande famiglia, o forse erano più famiglie riunite; era comunque bello vederli cantare tutti insieme, spassandosela beatamente. L’armonia che trapelava, la purezza e la semplicità di quelle immagini, mi riportavano alla memoria i racconti di mia madre sulle allegre serate che passava di tanto in tanto in campagna, quand’era ragazza, e in un attimo la mia mente tornava a vagare, perdendosi tra quelle atmosfere coinvolgenti e spensierate di cui parlava sempre con tenerezza e con un velo di affettuosa nostalgia. A farmi compagnia, seduto al mio tavolino, c’era il gestore della guesthouse, di religione giainista, che per la propria fede non poteva bere alcolici, né fumare, né prendere caffè, né mangiare carne, oltre a praticare la castità e non ricordo più cos’altro: praticamente era un concentrato di virtù. Non era la prima volta che mi accadesse d’incontrare qualcuno così ligio, anche tra chi professa altre religioni c’è gente che non ammette vizi, ma questo mi ha sempre lasciato un po’ interdetto: certo, magari, dopo una vita di privazioni, tutti loro andranno pure in paradiso… ma poi, quando arrivano lì? Cos’avranno da raccontarsi?!?