Poche ore di sonno nella cuccetta del treno, e all’alba ero a Jaisalmer, roccaforte edificata sulla sabbia, ultimo avamposto indiano sulle antiche rotte carovaniere del Thar Desert, e non potevo lasciarmi sfuggire la proposta turistica più allettante, che spopolava in quella località: la gita in cammello nel deserto, la prima della mia vita. Ho aspettato che aprisse l’agenzia, c’era un gruppo che partiva quella stessa mattina per un’escursione di tre giorni, e mi sono aggregato al volo. Non avevo idea di cosa servisse, ho infilato un paio di pantaloni lunghi, ho preso qualcosa per il cambio, ho fatto scorta di tabacco e cartine, e dentro un negozio di tessuti mi sono fatto fare il più classico dei turbanti in stile rajput, per proteggermi dal sole; qui non si subiva l’influenza dei monsoni, però quella del caldo si, e ancora una volta ero capitato nel periodo meno azzeccato: agosto era uno dei mesi peggiori per avventurarsi in un’impresa del genere, ma non m’importava, ero eccitatissimo e volevo farlo a tutti i costi. Fortuna volle che venisse fuori una splendida giornata di sole: nemmeno una nuvola minuscola a offuscare il cielo, anche solo per tenere su il morale, tanto per alimentare la speranza che per qualche attimo l’intensità dei raggi solari potesse affievolirsi; ebbene no, neanche la grazia di un’illusione.
Ognuno di noi ha ricevuto in dono un sacchetto di frutta, che doveva bastare per tre giorni, e una bottiglietta d’acqua, che invece potevamo riempire dalle taniche di scorta che ci portavamo dietro, poi ci siamo recati in jeep fino al luogo dell’appuntamento, dove, essendomi accodato all’ultimo minuto, avevano preparato il necessario per tutti tranne che per me. Da lì ci siamo messi in marcia, io a piedi, tutti gli altri in groppa: c’erano un canadese, un indonesiano e tre israeliani, due dei quali viaggiavano insieme.
Dopo una buona mezz’ora di cammino su rocce e terra, finalmente è giunto il momento dell’attesissimo incontro: ho trovato lui, alto, robusto, solenne, che si stagliava fiero sull’arido sfondo, “Lo strano mammifero dotato di gobbe, la leggendaria nave del deserto, il curioso ruminante che popola le dune sabbiose, il resistente quadrupede dal passo claudicante, la perfetta sintesi tra cavallo e borraccia, quel buffo animale lanoso, dal naso schiacciato e le labbra pendenti, comunemente conosciuto con il nome di cammello”. Ho fatto la contrazione di tutto ciò, per abbreviare, e l’ho chiamato “Lello”, Lello il cammello.
Lello, ovvero “Lo strano mammifero dotato di gobbe, eccetera eccetera, comunemente conosciuto con il nome di cammello”, se ne stava lì, impassibile, ad aspettare d’esser preparato per divenire la mia cavalcatura; non aveva un buon odore, ma dopo la notte che avevo passato in treno senza trovare un posto per lavarmi, e più di mezz’ora di marcia sotto il sole, anche lui doveva pensare la stessa cosa di me.
Io e Lello abbiamo trotterellato insieme, o meglio l’uno sull’altro, per qualche ora; avevo il sedere livido e dolorante, e ho cominciato a pensare che il primo tratto a piedi sotto il sole non fosse stato poi così male. Tra l’altro, oltre all’odore piuttosto pungente che si portava addosso, Lello doveva avere un sistema digestivo assai provato, anzi decisamente malridotto: aveva un alito fetente, e per di più rigurgitava in continuazione. Come già detto, neppure io potevo vantare le migliori condizioni igieniche, quanto all’alito, il lungo trattamento di cucina indiana speziatissima non doveva aver giovato troppo nemmeno alla bontà del mio, ma almeno io non gli ruttavo continuamente in faccia. Per fortuna avevo la mia riserva di tabacco, che si è rivelata provvidenziale: ogni tanto cercavo di confondere con il fumo le terrificanti vampate del suo fiato.
Avevamo fatto solo una breve sosta al principio, presso una piccola oasi, dove ci avevano fatto anche assaggiare del latte freschissimo raccolto direttamente nelle mani da una cammella che stavano mungendo, ma dopo più nulla, solamente il caldo, il sole, e il terreno secco, con appena qualche timido accenno d’erbetta e di cespugli con piante grasse, un paesaggio invariato fino a quando, in lontananza, abbiamo iniziato a scorgere le sospirate dune di sabbia.
A quel punto cominciavo a sentirmi pronto per il mio primo miraggio: avevo sentito dire che stando molto tempo sotto il sole, nel deserto, ti si materializzavano davanti agli occhi le cose che più desideravi, come se fossero vere. Io stavo sotto il sole già da parecchio, e pensavo ormai di meritare il mio miraggio, ma volevo evitare di sprecarlo con la classica oasi, avendo peraltro anche una discreta scorta d’acqua nella borsa: mi sembrava più sensato miraggiarmi qualcosa di maggiormente attraente ed esclusivo, tipo Angelina Jolie nuda. Purtroppo era solo il primo tentativo, non ero per niente pratico, e pur concentrandomi con tutte le forze non riuscivo ad avvistarla. Forse non la vedevo perché, nella mia inesperienza, l’avevo fatta apparire nel posto sbagliato, magari dietro qualche duna, e probabilmente la mia visione di Angelina se la stava godendo un altro… Se era così, mi restava unicamente la speranza che ci fosse in giro qualche altro neofito del miraggio, e che facesse comparire il suo desiderio, anche lui per errore, proprio davanti a me, auspicando, per di più, di non avere gusti troppo dissimili.
Appena giunti a ridosso delle dune, ci siamo fermati, e i cammellieri hanno acceso il fuoco: ci saremmo accampati lì per cenare e per passare la notte. Io e Marat, il giovane israeliano che viaggiava solo, siamo subito corsi in cima alle dune per tuffarci e ruzzolare giù, felici come dei ragazzini; io mi divertivo a scivolare come avevo fatto tante volte sulla neve, ma ancor più eccitato per la nuova grande esperienza del deserto. Siamo rimasti lì tutto il tempo a fare i cretini con le capriole, a buttarci dalle pareti più ripide, scivolando sul sedere per poi rotolarci fino a giù; quando ci hanno raggiunto gli altri ragazzi, eravamo già stremati e completamente imbrattati di sabbia. Mentre noi giocavamo, i cammellieri avevano preparato la cena, e Lello il cammello con gli altri suoi buffi simili stavano mangiando avidamente tra la sterpaglia, per offrire allo stomaco un’altra ghiotta e puzzolentissima digestione; intanto tra la sabbia avevamo scovato un’infinità di conchiglie, e scherzavo con i cammellieri rimproverandoli di avercele messe loro per abbindolare i turisti.
Ancora più memorabile per l’eccezionalità del posto, con la singolarissima visuale che si manteneva unica e indistinta in tutte le direzioni, la luce del tramonto ha portato un’incredibile sfumatura di colori, la cui spettacolarità è stata solo lievemente ridotta da una leggera foschia che si era formata all’orizzonte. Mi tornavano alla mente le immagini dei tramonti che m’ero trovato ad ammirare navigando verso le Eolie, nel mezzo del mare; in qualche modo la circostanza era simile: qui ogni tanto s’incrociavano sporadici gruppi di altri escursionisti, ma a parte quelli non c’era nulla oltre a sabbia e sterpi, eravamo a chilometri di distanza da qualsiasi centro abitato, e provavo le identiche sensazioni di libertà incondizionata. Erano passati soltanto pochi giorni da quell’avventura in mare, ma i ricordi apparivano già lontanissimi, e questo mi dava la dimensione di quante cose fossero successe nel frattempo, e di quanto intensamente stessi vivendo quegli straordinari giorni di viaggio in India.
Abbiamo cenato con un bel piatto piccante di verdure cotte accompagnate con chapati, gli immancabili panetti d’acqua e farina, schiacciati e messi sul fuoco, analoghi nella forma, come nella preparazione, alle tortillas messicane o alla piadina romagnola; per chiudere, in assoluta bellezza, c’era uno squisito chai, poi abbiamo steso le coperte sulle dune e ci siamo coricati nel buio, sotto le stelle. Ci sono situazioni che hanno qualcosa di così speciale che mentre le stai vivendo sai già che non potrai più dimenticarle, che rimarranno con te, indelebili, per tutto il resto della tua vita; dormire all’aperto, nel deserto, accampati vicino al fuoco, era una di quelle situazioni. Mi stavo nutrendo di una di quelle emozioni fuori del comune, difficili da raccontare, accomunabili con nulla: o le vivi, o non saprai mai cosa si provi.
Con questo pensiero nella mente, malgrado la stanchezza, non riuscivo ad addormentarmi, e non aiutava il vento, non aiutava la temperatura, che era scesa notevolmente, e soprattutto non aiutavano gli stercorari, scarafaggi volanti innocui ma dalla stazza piuttosto impressionante, che venivano a camminarci sulle coperte, o direttamente sopra di noi. Tentavo lo stesso di prendere sonno, tenendo gli occhi chiusi, finché non ho cominciato ad avvertire qualcosa di strano: benché gli occhi fossero chiusi, percepivo un chiarore anomalo, era come se stessi provando a dormire con la luce accesa. Ma come si può pensare di addormentarsi nel deserto, con gli scarafaggi che ti passeggiano sulle mani, se per giunta all’improvviso ti accendono pure la luce?
Ho aperto gli occhi, e ho visto l’intero paesaggio perfettamente illuminato, e in alto, una luna enorme che s’aggrappava al cielo, e chissà in che modo ci si teneva, così cicciona, gonfia, accesa come non mai, a dare bella mostra di sé; potevo guardarmi intorno, vedere nitidamente, e allora ho fatto qualcosa che prima non avrei potuto nemmeno immaginare: ho preso il taccuino con gli appunti, l’ho aperto, ho ritrovato il segno, e ho scritto. Sono riuscito a scrivere, alla sola luce della luna.
Ero letteralmente sconcertato, era una scoperta fantastica, una rivelazione: per tutta la vita, le luci delle città, anche in lontananza, mi avevano sempre impedito di apprezzare la straordinaria luminosità che la luna piena era in grado di diffondere; mi sembrava un fenomeno prodigioso, un miracolo, ero eccitatissimo per la sorpresa, tanto più che, a sorprendermi, era stata una cosa così maledettamente familiare, qualcosa che credevo di conoscere alla perfezione. Sapevo che la luna piena nel deserto sarebbe stata un evento unico, formidabile, e avendola vista, grande e lucente, dominare i cieli già da un paio di notti, avevo sperato di potermela godere tutta, e per un po’ ero rimasto ad aspettarla. Le altre sere, però, era spuntata molto più presto, stavolta invece si faceva attendere parecchio, pareva non volesse mostrarsi, e alla fine avevo rinunciato, pensando che per qualche oscura coincidenza astronomica non uscisse più, e avevo deciso di andarmene a dormire. A pensarci bene, però, non c’era un granché di cui stupirsi: come mi ripetevano sempre, lì non bisognava meravigliarsi dei ritardi, in India non esistevano orari. In India tutto può arrivare in ritardo, …anche la luna!
Ho subito raggiunto alcuni dei ragazzi, che si erano intrattenuti a chiacchierare sulle dune, poco lontano; stavano ammirando il medesimo spettacolo: la luna che brillava in alto, e sotto, il confuso chiarore delle deboli luci di Jaisalmer che s’intravedevano lontanissime, all’orizzonte. Il sonno era passato, avevamo da fumare, e siamo rimasti lì seduti sulla sabbia a parlare per ore. Marat era in estasi, assicurava che quella era senza dubbio la sua giornata più bella da quando era arrivato in India, e mi ha chiesto se fosse lo stesso anche per me, ma io in quel momento non ho saputo rispondergli: erano così tante le novità e le emozioni vissute in quei giorni, che non ero in grado di stilare una classifica.