Poco più avanti era accampato un altro gruppo: eravamo partiti insieme, per poi seguire due percorsi diversi, prima di rivederci lì sotto le dune. Li sentivamo ridere e scherzare intorno al fuoco, in lontananza, e pure le nostre guide si erano recate lì per aggregarsi ai loro colleghi. Abbiamo pensato di andare anche noi, per unirci alla festa, ma giunti nei pressi del loro accampamento abbiamo incrociato le guide che stavano rientrando; anziché però accoglierci festosamente, come peraltro ci saremmo aspettati conoscendo l’abituale giovialità dei personaggi, ci hanno fermato immediatamente, intimandoci a brutto muso di tornare subito indietro, senza troppe spiegazioni. Non riuscivamo a trovare nessun motivo plausibile per cui non volessero farci stare con l’altro gruppo, e abbiamo insistito finché loro, vedendoci ancora contrariati, oltre che perplessi, non ci hanno chiarito che camminare lì da soli era pericoloso, e che avevano appena ucciso un grosso serpente velenoso. Pareva avesse i toni di una stupidissima scusa improvvisata sul momento per non farci proseguire, ma, se fosse stato così, intanto avremmo faticato a indovinarne le ragioni, e per di più, oltre tutte le altre possibili considerazioni, quella del serpente velenoso ci sembrava una storia talmente banale e assurda che in fondo poteva anche essere vera. Il dubbio è durato poco, perché pochi istanti dopo s’è aggiunto uno dei cammellieri dell’altro gruppo, anche lui urlando, furioso per la nostra imprudenza, e ci ha fatto avvicinare al fuoco per mostrarci il serpente ucciso: lo teneva dalla coda, scuotendolo, e sempre urlando ce lo porgeva, dicendoci di prenderlo, visto che volevamo mostrarci tanto impavidi e curiosi, e di portarcelo via. Pur sapendolo morto, però, nessuno di noi s’è azzardato a toccarlo. E poi… va bene, era morto, ma bastava saperlo morto per stare tranquilli? Considerando il posto in cui eravamo, forse per niente, soprattutto a vederlo agitarsi in quel modo!
In India, per quel poco che ne sapevamo, anche gli animali dovevano ubbidire alle inoppugnabili leggi della reincarnazione. E se l’anima di quel serpente avesse deciso di tornare a reincarnarsi nello stesso corpo, perché ci si era affezionato? Non conoscevamo il suo karma, e nessuno di noi si è fidato: senza indugiare oltre, ci siamo allontanati da quel serpente che dondolava tra le mani della guida, e ce ne siamo tornati di corsa al nostro accampamento, e con gli occhi ben aperti. Appena mi sono sdraiato tra le coperte, ho ripensato alle parole di Marat, e ho realizzato che si, anche per me quella era stata una giornata davvero speciale: probabilmente aveva ragione lui, era stata la giornata più bella da quando ero arrivato in India. Intanto, con la minaccia incombente dei serpenti velenosi, dormire con qualche scarafaggio che si ostinava a volermi contendere il giaciglio non pareva più un grosso problema, e sono crollato subito dopo, senza dargli troppo peso.
Ci siamo risvegliati infreddoliti dal forte vento che s’era alzato e dal desertico fresco del mattino, e abbiamo provato a confortarci con un po’ di cibo e un chai caldo, con l’intera colazione che, grazie al vento, era così ben condita di sabbia che scricchiolava tra i denti; mentre mangiavamo, i cammellieri sono tornati a parlare del serpente: la sera prima erano piuttosto agitati, e volevano evitare di turbare anche noi, ma poi hanno considerato che era meglio metterci in guardia. Quel serpente che avevano ucciso tra le dune era molto pericoloso, per fortuna non ne giravano tanti, loro stessi ne avevano visti due o tre in tutta la vita; un suo morso poteva essere letale, si rischiava di morire in poche ore, e pur correndo al villaggio più vicino per telefonare e far partire immediatamente una jeep da Jaisalmer, probabilmente non ci sarebbe stato il tempo d’arrivare in ospedale ancora vivi. Entusiasti di questo loro accesso di sincerità, e d’aver trovato nuovi spunti per profonde riflessioni metafisiche sulla vulnerabilità della fragile ed effimera natura umana, sulla fugace evanescenza della vita e sull’ineluttabilità della morte, ci siamo rincamminati, ben felici di stare in groppa ai cammelli, alti almeno un metro dal suolo. A terra invece continuavano ad aggirarsi gli stercorari, gli ormai immancabili scarafaggi volanti che però, alle emozioni del volo, mostravano di preferire tutt’altro: se ne stavano sulla sabbia a rotolare faticosamente le cacche di cammello sparpagliate per il terreno.
Con Lello abbiamo riformato l’inseparabile coppia, pronti ad affrontare una nuova lunga giornata di avventure nel deserto. Lello il cammello era lento e pigro, ma anche un gran paraculo: si piazzava sempre nelle retrovie della nostra piccola carovana, però quasi mai per ultimo, e questo non per orgoglio o per spirito di competizione, di cui sembrava tutt’altro che preoccupato, ma solo per non essere ripreso dai cammellieri, che ogni tanto sollecitavano il più lento con qualche decisa pacca sul posteriore. Lello no, non ci cascava: lui rimaneva indietro per non faticare, manteneva il suo passo molle e svogliato, ma trovava sempre uno più brocco di lui al quale lasciare l’incombenza della pacca. Abbiamo anche visto passare un branco di antilopi che sgambettavano veloci, ma pure lì lo spirito di emulazione non l’ha nemmeno sfiorato: potevano anche correre quanto gli pareva, lui non era certo tipo da cadere in simili provocazioni!
In compenso lo stomaco di Lello stava sorprendentemente meglio, aveva smesso di rigurgitare, e soprattutto avevamo il vento a favore, il che finalmente mi salvava dalle sue terribili alitate: così era molto più piacevole passeggiare con lui, e gli si poteva perdonare tutto, anche la sua patologica avversione per l’ebbrezza della velocità. Che poi, chissà… magari, a dispetto delle mie malignità, più che dalla pigrizia la sua andatura fiacca era dettata solo dalla prudenza. Ecco, il povero Lello era un cammello straordinariamente prudente, non indolente, non un fannullone, non un apatico poltrone: solamente prudente; un po’ parco di emozioni, ma prudente.
Siamo giunti in un minuscolo villaggio accanto a un’oasi, altrettanto minuscola. Considerando il numero di safari che partivano da Jaisalmer, e che quello era forse l’unico centro da visitare nel raggio di chissà quanti chilometri, ogni giorno dovevano passare di lì diversi gruppi, e l’atteggiamento degli abitanti confermava chiaramente l’ipotesi: erano visibilmente insofferenti per quelle continue visite, avevamo addosso sguardi torvi, accigliati, quando il fastidio non esplodeva addirittura in urla e insulti. Quello che proprio non tolleravano erano le fotografie, almeno quelle che si provavano a scattare senza aver elargito il giusto compenso, ma non c’era da meravigliarsi, anzi, al contrario, sarebbe una presunzione, specie nei paesi più poveri, pensare di poter piombare all’improvviso, orde devastanti e rumorose di maledetti impiccioni con sorriso ebete, cappellino e macchina fotografica, ed essere accettati con gioia e calore per sola benevolenza; lì eravamo turisti, nel senso peggiore del termine, estranei alla loro comunità e malvoluti, e lì tutto si pagava: “Foto? Rupie”, ripetevano nel modo più chiaro e sintetico.
L’unico felice di vederci era il proprietario del piccolo spaccio, che al passaggio di ciascun gruppo riduceva sensibilmente le scorte di bibite che aveva in magazzino, e aumentava altrettanto sensibilmente i fondi nella cassa. S’è avvicinata una ragazzina: a loro soprattutto spettava il compito di raccogliere qualche rupia con le foto o con l’elemosina. Mi sono ricordato di avere ancora un po’ di frutta nel sacchetto, ho indicato alla piccola di attendermi lì e sono andato a prenderla: a me da mangiare non mancava, invece per lei, al contrario, la frutta nel deserto doveva essere un bene prezioso, ero certo che avrebbe apprezzato. L’ha presa guardandomi quasi con sorpresa, come se non si aspettasse che le dessi tutto il sacchetto; era allegra, compiaciuta, e mentre si allontanava, per portare la frutta a casa, si girava continuamente a sorridermi, a vedere se la guardavo ancora. Aveva uno sguardo tenero ed espressivo, e mi piace pensare che quei sorrisi fossero spontanei, sinceri, e che magari, anche se non le avessi regalato la frutta, mi avrebbe sorriso lo stesso, e nella stessa identica maniera.
Nel pomeriggio Lello il cammello ha dato il peggio di sé: appena s’è reso conto che il ritmo della passeggiata era più blando e che non rischiava troppi rimproveri, si è defilato e s’è fatto passare da tutti, piazzandosi stabilmente all’ultimo posto, e ha ripreso a rigurgitare allegramente con entusiasmo e disinvoltura; per fortuna anche questa volta mi ha graziato il vento, che seguitava ad arrivarci dalle spalle. Giunta sera, ci siamo accampati di nuovo, e c’è stata un’altra piacevole serata intorno al fuoco ad ascoltare melodiose canzoni indiane, cantate dalle guide, accompagnate estemporaneamente da qualcuno dei loro continui tormentoni che ormai, dopo due giorni di convivenza, c’erano entrati irrimediabilmente nella testa. Alcune erano forme tipicamente indiane, per esempio l’abitudine di raddoppiare le parole per dargli più forza, tipo i vari “same same” (che suona come un “uguale uguale”) o gli “slowly slowly” (“piano piano”), oppure la classica risposta che davano quando qualcuno di noi chiedeva se fosse possibile fare qualcosa: “Possibile? In India tutto è possibile”; altre invece erano squisitamente loro, o almeno io non le avevo sentite da altre parti, come la gettonatissima “24 hours full power!” d’incoraggiamento, o l’inconfondibile intonazione di “Why like this, Baba?!?” di scherzoso rimprovero, dove con l’appellativo “Baba” ci chiamavano tutti i turisti, visto che, a loro detta, alcuni turisti chiamavano tutti gli indiani in quel modo.
E dopo la festa… il riposo, con un’altra notte in compagnia degli scarafaggi, del freddo, e del vento, che soffiava a folate sulle dune e sulle fronde delle piante, scuotendole in un fruscio improvviso che, incredibilmente, era insieme violento e rilassante, al pari del fragore del mare che s’infrange sugli scogli.
La mattina, i soliti grossi scarafaggi volanti erano ancora lì, sembrava non dormissero mai; avevano sostanzialmente due attività fondamentali: il giorno lo passavano interamente a rotolare palle di merda per tutto il deserto, e la notte a rompere i coglioni a noi. D’altra parte nel deserto non c’era molto altro da fare.
Un’altra oretta a saltellare sulla gobba di Lello, fino a tornare al punto di partenza, e poi le nostre strade si sono inesorabilmente divise: Lello il cammello e i suoi compagni avevano degli altri turisti già lì ad aspettarli, mentre io, con i miei, avevo una jeep che ci riportava a Jaisalmer. Dopo il doloroso commiato siamo tutti saliti sul fuoristrada, dove neppure il deserto riusciva ad attenuare l’indomito istinto di un indiano al volante: anche in un contesto come quello, in un sentiero sterrato, invariabilmente dritto, con una visuale di chilometri su tutta la pianura, dove pure il fatto che si chiamasse “deserto” faceva intuire una probabilità piuttosto scarsa di incrociare altri veicoli, e ancor meno di trovare situazioni di pericolo imminente, beh, nemmeno in quella jeep nel deserto ci venivano risparmiate le continue strombazzate di clacson, che cadevano regolari e ininterrotte dall’inizio alla fine della corsa.