Era ancora presto, avevo l’intera giornata per vedere Jaisalmer, che la meritava tutta, e poi sarei stato di nuovo in partenza per riavvicinarmi a Delhi; c’era invece Marat che si sarebbe fermato qualche giorno, e ho potuto approfittare della stanza che aveva preso lui per lasciare lo zaino e per una delle docce più piacevoli, più necessarie, più gratificanti e più desiderate di tutta la mia vita. Fresco, pulito e profumato, sono uscito con Marat per mangiare qualcosa in un ristorantino, prendendocela molto comoda, anche perché in India non c’erano alternative: se non si voleva far tardi, i ristoranti non erano assolutamente da prendere in considerazione, era meglio comprare qualcosa per strada. In un ristorante indiano poteva tranquillamente passare una mezz’ora solo per avere il menù, e magari altrettanto per fare l’ordinazione, anche se il locale era vuoto e i camerieri erano tutti liberi; in più, una volta ordinato, i piatti arrivavano spesso alla rinfusa, senza nessun criterio comprensibile: l’ordine lo stabiliva la cucina secondo i tempi di cottura, o la fantasia del cuoco. Poteva capitare che qualcuno si ritrovasse con l’aver terminato tutte le proprie portate mentre un altro, al suo stesso tavolo, doveva ancora vedere la prima, oppure che ti servissero i chapati, che avevi chiesto per accompagnare una pietanza qualsiasi, quando avevi aspettato talmente tanto che ormai o s’era freddata, o non avevi resistito alla fame e te l’eri già mangiata tutta senza pane. Una ragazza mi ha raccontato di aver ordinato un pasto completo, e dopo aver pazientato diversi minuti, come prima portata è arrivato il dolce, in attesa che si cuocesse il resto. Marat almeno aveva con sé un mazzo di carte, e nell’attesa ho avuto tutto il tempo d’imparare le regole di un gioco israeliano e di farmi qualche partita con lui.
Prima di tornare nel delizioso centro storico, all’interno delle mura, volevamo toglierci uno sfizio: c’era un bellissimo albergo di lusso, in un antico palazzo signorile, ed eravamo curiosi di vedere come fossero le stanze. Dopo aver chiesto al ragazzo della portineria il permesso di entrare per vederle, abbiamo tentato, sempre per curiosità, di informarci anche sul prezzo, ma lui ci ha risposto che l’incaricato a fornire queste informazioni e a tenere le relazioni con i clienti era il manager dell’albergo; la cosa si faceva seria, ci ha fatto cenno di seguirlo e ci ha portato da lui. Il manager però sembrava dare poco credito a questi due nuovi aspiranti clienti, anzi ci ha trattati alla stregua di due straccioni, e ha scosso la sua autorevole testa dicendoci di andarcene, ché lui non aveva tempo da perdere con noi. Poi, continuando a esaminarci, squadrandoci dalla testa ai piedi, ha detto qualcosa al ragazzo, che ovviamente per noi era impossibile capire, ma il cui tono suonava chiaramente come un rimprovero, ed era alquanto facile intuirne il motivo, poiché, mentre lo redarguiva, seguitava a indicarci: lì dentro non si doveva far entrare gente che non fosse all’altezza del posto, quante volte doveva ripeterglielo?
A onor del vero, il nostro abbigliamento non doveva fare una gran figura: io stavo in ciabatte, pantaloni corti, e una maglietta piuttosto malridotta, ma sono rimasto colpito da quanto cambiasse l’atteggiamento tra chi ti giudica ricco, come tutti quelli che per strada ti tormentavano cercando in ogni modo di conquistare la tua simpatia, e chi invece non ti crede ricco abbastanza, pensa di non poter ottenere nulla da te, e non avendo bisogno di fingere può trattarti con disprezzo. Dopo aver rimproverato il portiere, l’ottimo manager, interpretando nel suo ruolo istituzionale anche l’onere di gestire le beghe con i seccatori, si è rivolto di nuovo a noi, ribadendoci che quell’albergo di lusso non era proprio il posto per noi: una stanza lì costava la bellezza di 1000 rupie a notte, e noi, con tutto il rispetto, non davamo l’impressione di poterci permettere una cifra del genere.
Marat mi ha guardato sbalordito, e io devo aver fatto altrettanto: era meno di 20 euro a notte, e per giunta da dividere in due! A quel prezzo, dalle nostre parti, non ci si prendeva più nemmeno un letto nella camerata di un ostello, e la curiosità di vedere la stanza s’era fatta ancora più grande, era impossibile non insistere. Il manager ha provato a spiazzarci, chiedendoci dove stessimo alloggiando: era come pensava, gente del nostro stampo non poteva che dormire in una squallida guesthouse, non eravamo tipi da albergo di classe. Noi però abbiamo prontamente sfoderato una brillante contromossa: d’accordo, attualmente la nostra era una vacanza al risparmio, non potevamo negarlo, ma ci serviva a esplorare e selezionare i posti più belli, per poi tornarci con le nostre fidanzate, magari anche per la luna di miele. E’ rimasto interdetto per qualche secondo, con la faccia di chi in fondo non si sa mai, e recuperando dal cilindro delle espressioni il più appropriato sorriso di mestiere, ci ha indicato la strada: «Prego, accomodatevi».
Abbiamo attraversato tutto il corridoio fino a un grazioso giardinetto, che risaltava per il gusto, per l’armonia, ma soprattutto per l’intensità del verde, particolarmente sorprendente per una cittadina ai confini del deserto; solo dopo ci ha mostrato una delle camere, che però s’è rivelata molto diversa da come l’avevamo immaginata. L’ammirevole attenzione nella cura del giardino e del palazzo era vanificata dall’assurda trascuratezza delle stanze, che in fondo non apparivano troppo diverse dalle pensioni più economiche che il manager disprezzava con tanto sdegno: a parte una pregevole testata del letto in legno intarsiato, unico pezzo ben conservato dell’arredamento originale, tutto il resto, dai mobili, al bagno, fino all’intonaco, sembrava cadere a pezzi.
Mi avevano parlato di una bevanda tipica, il “bhang lassi”, un miscuglio di yogurt ed estratto di marijuana, che s’incontrava facilmente in tutta la regione, ed ero curioso di provarla. Fuori però c’era un caldo infernale, non lo trovavamo, e la sete si faceva sentire con insistenza, finché, passando accanto a un negozietto di alcolici, abbiamo ripiegato su una birra ghiacciata, rimandando il bhang lassi alla prossima occasione. La birra non sarebbe durata molto, chiacchieravamo e ci passavamo la bottiglia a ogni sorso, bevendo con gusto mentre passeggiavamo lungo la via che portava all’ingresso delle mura. All’improvviso, quando ormai erano rimasti non più di un paio di sorsi, ci siamo sentiti chiamare da un tizio dentro a un negozio, con un tono tremendamente alterato, di feroce rimprovero. Appena ci siamo avvicinati, ci ha urlato di entrare subito nel suo locale e di andare a ripararci dietro al bancone; era furioso, diceva che in India non era permesso bere per strada, e che stavamo offendendo la cultura del suo paese. Abbiamo cercato di giustificarci dicendo che, quando avevamo comprato la birra, nessuno ci aveva informato di nulla, ma il tipo era fuori di sé, dallo sguardo pareva volesse incenerirci, e in simili condizioni non ci sembrava il caso di entrare nel suo negozio, per cui ci siamo allontanati dicendogli che saremmo andati a berla dal negoziante che ce l’aveva venduta, cercando intanto di coprire la bottiglia con il corpo, alla meno peggio, e tornando indietro a grandi passi. Arrivati lì ci siamo affrettati a terminarla, prima di scatenare altri risentimenti, e abbiamo chiesto spiegazioni: era proprio così, il venditore non ci aveva detto niente perché era una cosa assolutamente risaputa, e giacché spesso gli stranieri se ne fregavano, credeva semplicemente che fosse lo stesso anche per noi. Come abbiamo potuto apprezzare da lì fuori osservando il viavai di clienti, invece, gli indiani che volevano consumare alcolici compravano la bottiglia, entravano nell’angusto chiosco che dava sulla strada, si nascondevano accucciati dietro al bancone, attenti a non essere visibili da nessuno dei lati, e rimanevano lì sotto a tracannare fino all’ultima goccia. Ci siamo scusati con lui, in rappresentanza di tutta la comunità indiana, e ci siamo avviati ancora una volta verso le massicce mura del forte.
La vista della fortezza, tutta color terra come anche l’interno della città, era incredibilmente affascinante, da lontano aveva l’aspetto di un gigantesco castello di sabbia eretto sul deserto. Si entrava da un’imponente porta dietro la quale era racchiuso un intricarsi di deliziosi vicoletti, case e templi, tra cui le bellissime espressioni d’arte che caratterizzavano la costruzione dei templi giainisti, con le loro morbide forme dalla complessa architettura arzigogolata e ricca di decorazioni. Passeggiare nel pomeriggio tra quelle antiche viuzze era notevolmente meglio di com’era stato all’alba di due giorni prima, quando le uniche persone in giro erano i soliti ossessionanti procacciatori di clienti; in ore più consone si girava senz’altro più volentieri, benché l’ambientazione rimanesse ancora marcatamente turistica.
Calato il sole, per me è giunto il momento di ripartire: un nuovo viaggio notturno, stavolta in autobus, con destinazione Bikaner. Lì, secondo le indicazioni della guida, sarei stato costretto a fermarmi anche la notte, per ripartire di primo mattino sull’unico treno giornaliero per Delhi, dove sarei arrivato per l’ora di cena, con la giornata persa e appena in tempo per raggiungere di corsa l’aeroporto, entro la mezzanotte, e non un solo minuto più tardi, …prima che il taxi si trasformasse in una zucca e il tassista in un topolino, o magari niente di tutto questo, ma c’era comunque il rischio di perdere l’aereo. Ero già rassegnato a trascorrere tutto l’ultimo giorno in treno, senza poter fare nemmeno un giro a Delhi, ma poi alla stazione di Jaisalmer, dov’ero andato per assicurarmi già il posto in anticipo, da qualche magico incantesimo da fiaba del deserto erano spuntati fuori ben due convogli Bikaner–Delhi che viaggiavano di notte, lasciando a me e a Delhi un’intera giornata per conoscerci meglio. Avevo scelto il primo dei due, per stare più sicuro, ed ero andato via con il biglietto in mano, felicissimo, con la sensazione di aver compiuto una specie di miracolo: mi sembrava d’aver raddoppiato il tempo.
Nella piazzetta più movimentata, o forse l’unica dentro le mura, siamo andati alla ricerca di un risciò, e come di consueto s’è creato attorno a noi un cumulo infervorato di candidati; ho contrattato con uno di loro un prezzo ragionevole, ho salutato Marat, e sono salito su. Altri tre ragazzi, che stavano con il conducente, mi hanno chiesto il permesso di salire con noi: probabilmente a quell’ora non c’era più molto lavoro, e venivano a farsi una passeggiata per accompagnare il loro amico. Stavamo stretti come sardine in scatola su quel minuscolo motorino a tre ruote, sedevamo in cinque dove si stava già scomodi in tre, ma i ragazzi erano allegri, di ottima compagnia, e alla fine sono rimasti con me alla fermata, per i saluti, fino al momento della partenza.
Sul pullman ho trovato Nicola, un ragazzo di Parma: era un tipo socievole, anche lui viaggiava solo, anche lui era entusiasta di farlo, e ci siamo scambiati sensazioni sulla nostra “esperienza dell’India”, per quanto potessimo riuscire a descriverla, perché forse, come aveva inteso dire anche Moravia nel suo racconto così intitolato, l’esperienza dell’India non si riesce a descrivere, è solo da vivere. Arrivati in città, Nicola ha preso una stanza, io ne ho potuto approfittare per lasciare nuovamente lo zaino, e senza indugiare oltre siamo usciti insieme a fare un giro, per cercare qualcosa d’interessante da vedere.