Ero stato dal medico a farmi prescrivere la profilassi antimalarica, per partire tranquillo, ma poi, parlandone con chi aveva viaggiato in altre zone endemiche, mi era stato sconsigliato di cominciarla: la profilassi riduceva solo parzialmente le possibilità di contagio, e per contro aveva pesanti effetti collaterali. Non esistendo vaccini che garantissero la completa immunità, la miglior azione preventiva appariva quella di prendere tutte le possibili precauzioni contro le zanzare; fatto quel primo passo, il consiglio era di affidarsi inizialmente alla buona sorte, e poi, se questa avesse negato il proprio sostegno, alle strutture sanitarie indiane. Sapevo che saltare la profilassi era una scelta assolutamente discutibile, che correvo più rischi e che con la salute non era il caso di scherzarci troppo; era pur vero, però, che in questo modo mi sarei risparmiato la certezza d’appesantire il fisico con vagonate di medicinali. La soluzione in fondo mi sembrava buona, ma a una sola condizione: dovevo andare in farmacia e fare una buona, anzi ottima, scorta di repellenti. Ho chiesto alla farmacista cosa avesse da propormi, e lei ha apparecchiato sopra al banco un ricco campionario di creme, stick, spray e braccialetti: «Quale desidera?», mi ha chiesto. E io: «Quale?!? …Qui non è proprio il caso di mettersi a scegliere: io li prendo tutti!».
Ho lasciato la farmacista sbigottita che mi guardava andar via tutto contento con una busta stracolma dei più moderni ritrovati antizanzare; avevo speso un patrimonio e compromesso buona parte dello spazio nello zaino che avrei usato in viaggio, ma avevo la salda convinzione di possedere tutte le armi migliori per rendere la vita difficile a quegli odiosi insetti dalle insane manie vampiresche.
Mancavano pochissimi giorni alla partenza, ma c’era ancora spazio per la più bella delle sorprese: c’era da trasferire una barca a vela da Nettuno a Lipari per conto di una società di charter. Avevano chiesto a un mio amico di fare la traversata, ed era l’opportunità che attendevamo da tempo per fare esperienza, e per avvicinare il mondo della vela anche come possibile prospettiva di lavoro: in qualche modo sentivo d’appartenere al mare, che lui era sempre stato lì ad aspettarmi, dovevo soltanto decidermi a raggiungerlo, e questa era la prima occasione per incominciare a farlo. E poi, non era solo per la passione che mi animava, c’era anche l’importante questione tradizionale, del rispetto per le mie origini: l’Italia era da sempre terra di poeti, santi e navigatori, e io cos’altro mi potevo inventare? Non avevo da vantare una gran dimestichezza con i versi, e per fare il santo… per quello ero sempre stato negato!
Saremmo partiti in tre su una nuovissima barca di undici metri, senza che nessuno di noi si fosse mai avventurato, prima di allora, oltre la navigazione sotto costa. Tutti i nostri conoscenti più esperti sostenevano che fare una qualunque traversata con simili presupposti era già un azzardo, farne una così lunga e impegnativa, dovendo peraltro navigare anche di notte, per la prima volta, sarebbe stata una follia: eravamo inequivocabilmente, a detta di tutti, degli incoscienti. Tutti però concordavano su una nostra ignobile fortuna per le condizioni meteorologiche ideali che avremmo trovato, ma di questo, con un pensiero alle già citate vicende scandinave, e me ne sia perdonata l’immodestia, mi assumevo io gran parte del merito. Ci aspettavano un paio di giorni di viaggio in alto mare, con la prospettiva di dormire a turno e di mantenere la veglia il più a lungo possibile, poi una notte a Lipari, e il rientro a Nettuno nel pomeriggio successivo, solo poche ore in anticipo sul mio volo mattutino per Delhi. Qualsiasi contrattempo in mare poteva compromettermi la partenza, ma i contrattempi possono verificarsi anche a terra, e se ci si lascia troppo intimorire dai pericoli non si realizza mai nulla: la rinuncia a una tale opportunità non era contemplata.
Eravamo pronti in porto, con le nostre buste di cibarie, fin dal primo pomeriggio. Quando finalmente la barca è entrata, un Sun Fast 37 di ritorno da una crociera, abbiamo avuto il tempo per prendere confidenza con le attrezzature di bordo, goderci una bella cenetta, e concederci appena qualche ora di sonno in cabina prima di risalire tutti e tre in coperta, in piena notte, a mollare gli ormeggi. Siamo entrati in mare aperto sotto un bellissimo cielo stellato e un minuscolo spicchio di luna, troppo esile però per illuminare il nostro cammino lì sotto. Nuotavamo in un buio nero in cui non si distingueva nulla, cielo e mare erano diventati una cosa sola, e la barca dondolava spavalda su ogni onda affondando la prora sempre più dentro quell’oscurità. Poche ore dopo, le prime luci chiare dell’alba cominciavano a spuntare lentamente dietro ai monti lungo la costa, disegnandone il contorno: già da sola, quell’immagine valeva tutte le fatiche della traversata.
Il mare è vivo, e le onde sono il respiro del mare. Quel giorno il mare si era rasserenato fino ad addormentarsi, e dormiva con il respiro dolce e regolare di un sonno quieto, se ne stava disteso, pacato, quasi immobile. Ci sorreggeva lasciandoci scivolare sopra di sé lungo la nostra rotta, da cui ogni tanto scorgevamo qualche isola; mantenevamo a vista, alla nostra sinistra, la striscia di costa che si faceva sempre più lontana e sottile, finché anche quell’orizzonte è diventato mare, prima di scomparire, insieme con gli altri, al calare della sera. Poi di nuovo il buio pesto. Per la seconda volta la luna era andata a nascondersi dietro l’ombra del mondo, e da lì ci spiava, facendo capolino e guardandoci avanzare nelle tenebre per tutte le lunghe ore della notte, che sembrava non passare mai. A turno cercavamo di riposare un po’, ma il sonno e la stanchezza non volevano darci tregua, e senza poter far molto per combatterli attendevamo impazienti la nuova aurora, che finalmente è apparsa puntuale. Le ore del crepuscolo erano senza dubbio i momenti più intensi, e benché quella mattina la foschia ne limitasse la visibilità, rendendo i colori meno spettacolari, la scena che s’illuminava con il formarsi del giorno era incantevole: il sole sorgeva direttamente da un mare ancora calmo e riposato, e dall’altra parte di nuovo il mare, a perdita d’occhio, in ogni direzione, mare, mare, mare. Tutt’intorno a noi, ormai chiari e delineati, si mostravano i confini: tutto quello che vedevamo era solo uno sterminato cerchio d’acqua, e noi stavamo proprio nel mezzo.
La mattinata trascorreva sulla rotta per Lipari senza molti diversivi, non si vedeva ancora terra, né s’incontravano altre imbarcazioni; liberi da apprensioni ci lasciavamo assorbire dal piacere della navigazione, e da quello dell’altra attività con cui, fin dalla prima sera, il mare aveva dovuto dividersi le nostre attenzioni: consumare le ricche scorte della cambusa. Era un tema, quello della cambusa, che aveva ricoperto un ruolo di spicco nell’organizzazione della nostra traversata: almeno quella non era stata allestita con la leggerezza e l’inesperienza di tre principianti, ma era un elemento per il quale potevamo vantare competenza e dedizione, un fiore all’occhiello tra le dotazioni del nostro Sun Fast 37. Il diversivo è giunto invece nel pomeriggio, del tutto inatteso: a qualche miglio di distanza c’era un gruppetto di cinque o sei delfini che parevano essersi interessati a noi. Presa la decisione di venire a conoscerci, hanno puntato la nostra barca, e nel giro di pochi istanti erano già lì. Ce li vedevamo arrivare incontro velocissimi, senza comprendere cosa volessero fare: per come avanzavano decisi, sembrava quasi che volessero colpirci, ma giunti all’altezza dello scafo sono improvvisamente scomparsi sotto, e mentre noi, incuriositi ed eccitati, tentavamo di sporgerci fuori a cercarli per capire le dinamiche di quel gioco, loro sono riemersi dalla prua per rimanere lì nella scia, dove la barca spostava più acqua, a saltare, incrociandosi e nuotando quasi addosso allo scafo. Erano uno spettacolo magnifico: sono rimasti lì davanti a giocare per qualche minuto, con noi, imbambolati, che li guardavamo salire e scendere intorno alla prua, fino a che, dopo essersi consultati, non hanno risolto per dedicarsi a qualche nuovo passatempo, rallentando e lasciandoci sfilare via. Prima di congedarsi, il più esuberante del gruppo ha voluto salutarci con un ultimo omaggio, uscendo fuori dal mare e salendo in aria, in verticale, a sculettare battendo con la pinna posteriore sul pelo dell’acqua: era bellissimo, pareva tentasse di danzare sulle punte come una goffa ballerina alle prime armi. Li vedevamo allontanarsi dietro di noi su uno specchio d’acqua che brillava dei riflessi del sole, e noi stavamo su quello stesso specchio, a galleggiare sul mondo, perché in quel momento il nostro mondo era tutto lì, era fatto solo di mare.
Poco più tardi abbiamo cominciato ad avvistare le isole Eolie, a vederle diventare sempre più grandi finché, dopo trentasei incredibili ore di sublime batticuore, graziati dalla fortuna per il tempo splendido che avevamo trovato, siamo approdati a Lipari, sani e salvi. Da lì al momento della partenza per l’India c’è stato appena lo spazio per un ritorno d’inquietudine, dopo le nuove allarmanti notizie sulle alluvioni: le condizioni, già minacciose, continuavano a peggiorare; ero ancora in tempo per cambiare programma, e una parte di me ci stava pensando molto, molto seriamente. Intanto, però, ero riuscito a procurarmi i riferimenti del titolare di un’importante agenzia turistica di Delhi, era un amico di un’amica di un amico… praticamente un fratello, che avrebbe potuto aiutarmi a raggiungere il sud, dove le situazioni climatiche e sanitarie apparivano di gran lunga migliori. I tentativi di contattarlo dall’Italia s’erano rivelati infruttuosi, ma una volta arrivato in India avrei potuto fare una visita presso l’agenzia di sua proprietà, e confidare nella loro assistenza per allontanarmi rapidamente dai pericoli meteorologici di Delhi. Rassicurato dalla mia nuova prestigiosa conoscenza, ho superato anche quell’ultima crisi, e alla fine mi sono presentato puntuale all’aeroporto, pronto per l’imbarco.
Non riuscivo ancora a immaginare cosa avrei potuto trovare in quella terra, cosa dovevo aspettarmi, sentivo in corpo una vertiginosa progressione di emozioni: stavo per cominciare il viaggio più atteso, ma anche quello che si prospettava come il più incerto, stentato e temuto della mia vita, e mi aggiravo per l’aeroporto con l’aria stralunata di chi sta cercando di arrampicarsi su un grosso punto interrogativo per provare a osservare dall’alto la forma vera delle cose. Le cose però, qualunque strampalata forma avessero preso, sembravano in qualche modo destinate a rimettersi bene: dopo le incoraggianti premesse delle assolate ed entusiasmanti giornate in barca, tornava alla ribalta la proverbiale fortuna che solitamente aveva la compiacenza di accompagnarmi in queste occasioni, e sull’aereo, complice un overbooking, mi è stato assegnato un posto in classe business. Non m’importava un granché di viaggiare comodo, né del menù prelibato, ma lo consideravo un segnale di buon auspicio. Stavo arrivando: persino ai monsoni, stavolta, sarebbe toccato farsi da parte!