Purtroppo tra i molteplici aspetti della vita cittadina c’erano anche innumerevoli scene di povertà, drammatiche, raccapriccianti, c’erano tantissime persone che dormivano in strada. Passeggiando su un marciapiede ho notato per terra un cartone, proprio nel mezzo, accuratamente aggirato dai passanti; sembrava solo un vecchio scatolone buttato ma, quando ci sono passato accanto, mi sono accorto di una mano che spuntava fuori e mi si è raggelato il sangue: sotto c’era un uomo che dormiva, a malapena s’intravedevano i capelli e, solamente guardando bene, un movimento quasi impercettibile che ne faceva intuire la respirazione. Il cartone era così piccolo da far indovinare lì sotto un corpo mutilato, buttato tra la noncuranza di occhi tristemente troppo abituati alla disperazione. La gente percorreva le proprie strade con indifferenza, con volti impassibili, spesso imbronciati, o a volte solo distanti, come se gli spazi tra gli individui fossero infinitamente più grandi, come se tutti noi, pur passandoci accanto, fossimo così lontani da non riuscire nemmeno a vederci.
Ho camminato finché le gambe non mi hanno implorato di smettere, poi, impietosito, sono tornato da Chicca e con lei, dopo tre settimane di cucina strettamente vegetariana, dieta dettata non da convincimenti etici o religiosi ma dalla totale mancanza d’alternative, ho finalmente mangiato di nuovo della carne: un eccellente pollo. Appena sbrigata l’incombenza alimentare, doverosa per mantener fede a un impegno preso da tempo con il mio stomaco, siamo usciti a fare acquisti: volevo trovare qualcosa da riportare per ricordo, ma soprattutto ci andavo per il gusto di mercanteggiare una volta di più con gli abili venditori indiani. Avevo avuto già tre settimane per potermi orientare con i prezzi, ma finora, a parte le due trombe, non avevo comprato nulla, per evitare di appesantire lo zaino; adesso, con le idee chiare, ero pronto a misurarmi con i più valenti e navigati maestri nell’antica e complessa arte della negoziazione. C’era però una terribile e imprevista calamità che, pur risparmiando ancora il resto della nazione, si stava abbattendo sul commercio di Delhi: i prezzi fissi. Buona parte dei negozi, nelle vie più commerciali del centro, esponevano i cartelli in bella vista, probabilmente per tranquillizzare i turisti dandogli un’illusione di maggior serietà. Ogni volta che indicavo una cosa e ne chiedevo il prezzo, anziché lavorare di fantasia sparando cifre inverosimili, com’era lecito aspettarsi da un venditore indiano, il tronfio negoziante di turno mi mostrava immediatamente quello corretto, già scritto su qualche targhetta, e subito dopo mi faceva notare quel solito deplorevole cartello appeso all’ingresso: “prezzi fissi”, come se fosse un motivo d’orgoglio. Con molta perizia e altrettanta tenacia, però, al costo di lunghe ed estenuanti trattative, e non per questioni di prezzo ma esclusivamente per una mia gratificazione personale, alla fine sono riuscito a spuntare qualche rupia di sconto anche da qualcuno di questi.
Era tempo di andare, sarebbe stato bello rimanere ancora un po’, ma c’era di che accontentarsi: avevo spremuto a dovere tutta la clessidra, avevo goduto a pieno dell’indianità, di luoghi carichi di potenza espressiva, di città dall’incomparabile potere evocativo; ero stato affascinato dagli indiani, dalle religioni, dai paesaggi, da una vita che scorreva lenta e suggestiva, e poi ero stato letteralmente stregato dal deserto. Ero molto, molto più ricco di quand’ero arrivato, appagato come ci si sente alla fine di un orgasmo. Adesso finalmente potevo davvero dire di saperlo, di avere la risposta alla mia domanda: sapevo cosa si provava ad aver realizzato un sogno, ed era una sensazione magnifica. Tutto era andato nel migliore dei modi, e potevo anche vantarmi d’aver aggiunto una nuova perla ai miei successi meteorologici: avevo sconfitto perfino i monsoni. Quanto alla malaria, i miei superpoteri contro le zanzare avevano funzionato brillantemente: lasciavo l’India in condizioni invidiabili, sano come un pesciolino.
Sul pullman di linea, che conduceva all’aeroporto, ero il solo passeggero; l’autista mi ha fatto sedere davanti, accanto a lui, e ci siamo messi a parlare per tutto il tragitto. Tra una chiacchiera e l’altra mi ha fatto provare il tabacco da masticare: l’avevo visto usare di frequente, e prima di partire mi ero ripromesso di assaggiarlo, ma tra tante cose m’era poi passato di mente. Adesso mi ero tolto anche quest’ultimo sfizio, per quanto, devo confessare di non esserne rimasto particolarmente entusiasta.
Mi guardavo intorno cercando di catturare tutto, volevo assorbire ancora nuove sensazioni, le ultime, sebbene ne fossi già totalmente impregnato: di più, dopo tre settimane avevo l’anima completamente zuppa, fradicia di emozioni, un’anima da strizzare, ma non avevo nessuna intenzione di farlo, a me andava bene così, ero in uno stato d’animo di estasi, quasi delirante, che trovavo sublime. Con l’autista ho iniziato a ripercorrere tutte le tappe del mio viaggio, cosa che poi ho continuato a fare anche da solo, in aeroporto. Nel tripudio di percezioni, cercavo di fissare vibrazioni, colori, immagini, e soprattutto gli odori: cercavo di mantenere nelle narici l’odore dell’India, quell’odore… anzi, quella puzza asfissiante di smog, d’incenso, di piscio, di caldo, di sudore, di spezie, di merda di vacca, di fritto… quella puzza nauseante che ti perseguita ovunque e che non ti levi più di dosso, quell’insopportabile puzza che avevo dovuto respirare a pieni polmoni, ininterrottamente, e che adesso in quell’aeroporto così asettico, inquinato d’aria condizionata, già cominciava a mancarmi.
Tra i banchi del check-in c’era una gran frenesia, intanto io, nell’attesa, passavo in esame i personaggi che mi circolavano intorno. Molti erano indiani, mi soffermavo su di loro pensando che erano le ultime facce indiane che potevo vedere prima di ripartire, poi mi fermavo a guardare gli stranieri, e mi chiedevo che cosa avessero trovato loro in quella terra, se avevano anch’essi la fortuna di tornare con le stesse passioni vive con cui tornavo io. Li vedevo girare per l’aeroporto con le loro grosse valige, parecchi avevano facce che non mi piacevano, e pensavo che alcuni, come accadeva spesso, potessero aver passato tutto il loro tempo rinchiusi in qualche lussuosa struttura alberghiera, terrorizzati all’idea di mettere il naso fuori da lì, e probabilmente in tutto il loro soggiorno non avevano parlato che con altri turisti, magari per commentare insieme quanto fosse bello viaggiare. Forse la mia era solo presunzione, ma guardando quei tipi si rafforzava in me il pensiero che non sempre basta prendere un aereo o salire su un treno per sapere d’aver viaggiato: molta della gente che si muove per andare a stare da qualche parte non viaggia, molto più banalmente, si sposta, e nulla più.
Volavo con l’Aeroflot, la compagnia aerea russa, e avevo approfittato della ghiotta occasione per fare anche una tappa di quattro giorni a Mosca, dove sono atterrato in mattinata. L’impatto con la Russia, però, è stato incredibilmente diverso dalle attese: non che mi aspettassi un comitato di ricevimento con tanto di tappeto rosso, ma dire che Mosca non si presentasse come una città accogliente era ancora un eufemismo.
All’aeroporto non esisteva un ufficio per informazioni turistiche, né ce n’era traccia alle stazioni del treno o in quelle della metro, nemmeno nelle più centrali; tutti i cartelli e le insegne erano scritte solo ed esclusivamente in cirillico, il che rendeva difficoltoso anche soltanto raggiungere l’uscita, e prima di incrociare qualcuno che si scomodasse per dare una semplice indicazione, ogni volta dovevo provare a fermare decine di persone, che generalmente mi scansavano come se fossi un appestato e tiravano dritti per il loro cammino, senza neppure degnarsi di guardarmi in faccia. Era evidente che non avrebbero tentato nessuno sforzo per provare a capirmi, né tanto meno potevo considerare anche solo verosimile che, come mi era successo più di una volta con l’hindi, persone incontrate per strada cercassero addirittura di insegnarmi qualche parola nella loro lingua: qui, quando provavo a chiedere un’informazione, la maggior parte dei passanti cercava solo di evitarmi.
Non l’India, come avevo temuto io prima di partire, bensì la Russia era davvero un paese difficile in cui viaggiare, e non tanto per la lingua incomprensibile o per la mancanza anche solo delle strutture essenziali per l’accoglienza dei turisti, che pure la rendevano peggiore dell’India, quanto soprattutto per la poca disponibilità della gente, che da sola può bastare a rendere più o meno facile la visita di una nazione: in qualsiasi terra, e con qualunque condizione, quando si ha voglia di comprendersi si superano tutte le difficoltà.
Certo, qui non c’erano gli stessi rischi d’inondazioni monsoniche, di malattie tropicali, sicuramente era una città più pulita, più efficiente, era più facile trovare un ristorante italiano o un negozio d’abbigliamento di firme prestigiose, ma in una grande capitale come Mosca ci si sentiva assai più sperduti e abbandonati di quanto ci si potesse sentire in un piccolo villaggio di montagna nel cuore dell’India.
Oltre all’impressione che ne avevo percepito nell’impatto iniziale, anche le poche parole che ero riuscito a scambiare in inglese con qualche moscovita la facevano apparire una città triste e malinconica. Il primo monito l’avevo avuto subito, sull’autobus che avevo preso all’aeroporto, dov’ero seduto davanti a un’avvenente hostess che in pochi minuti, senza avere con me nessuna confidenza, mi ha vomitato addosso tutta la sua insoddisfazione, il disprezzo che provava verso Mosca, e la sua voglia di scapparsene altrove. Una scena molto simile l’ho vissuta di nuovo, poco dopo, con tre ragazze che mi hanno aiutato a individuare l’indirizzo dell’ostello: mi allertavano circa le situazioni più preoccupanti che incombevano sulla città, dalla polizia corrotta, che per gli stranieri era uno dei pericoli più temibili, ai nuovi movimenti xenofobi, che riscuotevano sempre più seguito tra ragazzini annoiati e senza interessi, ma soprattutto si meravigliavano della mia scelta, a loro dire assurda, di visitare Mosca, una città cupa, critica, violenta, da cui dicevano che era meglio tenersi il più possibile alla larga, confessandomi la loro smania di andarsene via al più presto. Era un segnale troppo netto per non essere significativo, soprattutto in considerazione delle brevissime conversazioni che avevo avuto con loro: in entrambi i casi quella voglia di fuggire via era stata quasi la prima cosa che avevano espresso. Il paragone con l’India era spontaneo e fin troppo immediato: lì avevo parlato con diverse persone, e indubbiamente c’era anche lì chi si lamentava delle proprie condizioni, degli stipendi, delle poche opportunità, ma il loro modo di lamentarsi rivelava chiaramente un risvolto positivo, coltivavano in quello sfogo la speranza che il loro paese potesse migliorare, non ho mai sentito nessuno di loro che avesse un desiderio così viscerale di lasciare l’India.
Anche in ostello s’indovinava facilmente quanto Mosca non fosse una meta particolarmente ambita tra chi viaggiava solo: quasi tutti gli occupanti erano di passaggio, la maggior parte faceva appena una breve tappa prima di avventurarsi in treno sulla transiberiana, e la tiepida accoglienza della città proprio non invogliava a rimanere oltre. Era enorme e dispersiva come tutte le grandi metropoli, e una volta di più risorgeva impietoso il confronto con l’India: anche a Delhi avevo incontrato un clima meno ospitale che nel resto dell’India, ma era sempre un posto incredibilmente vivo, il caos che vi regnava arricchiva la città di una personalità e di un carattere comunque coinvolgenti. Mosca, al contrario, risultava terribilmente apatica anche in quell’aspetto, dove persino i pur inevitabili spunti metropolitani di frenesia cittadina parevano mancare di vitalità, di spontaneità, parevano anch’essi misurati, tanto da renderla ancora più fredda, più distaccata, quasi ostile: non era affatto “same same” con il mondo che nei giorni addietro m’ero abituato ad avere attorno.