Con la pioggia, la visibilità è calata ancora, in particolare per il nostro mezzo sconquassato in cui nemmeno funzionava il tergicristallo dal lato dell’autista, e procedere in quelle condizioni diventava sempre più un’avventura; di tanto in tanto ci fermavamo a mangiare qualcosa, e si guadagnava un po’ di tempo, nell’attesa che le nuvole esaurissero tutto il loro carico d’acqua. I venditori ambulanti sparsi per quei paesini approfittavano delle nostre soste per salire a proporre le loro mercanzie, e intanto io cominciavo a prendere confidenza con il cibo indiano, provando un po’ di tutto: dal naan, una squisita focaccia calda cotta al forno che accompagnavo agli speziatissimi piatti di verdure, legumi o formaggi, fino ad assaggiare alle otto di mattina, appena sveglio, una croccante cipolla in pastella frittissima, l’ideale per una colazione sana e leggera.
Dopo esserci lasciati alle spalle le zone più popolate, ci siamo arrampicati su una ripida strada di montagna, per poi riscendere dall’altro lato, dove, però, il tragitto non era più asfaltato, e la pioggia caduta nella notte aveva lasciato i segni del suo passaggio: la terra e i sassi franati avevano ristretto il percorso e l’avevano riempito di fango, costringendo i mezzi a una lentissima, e ostica, gimcana a senso alternato che ci ha tenuto fermi per un paio d’ore. Il cammino riprendeva ancora su impervie stradine, in un panorama mozzafiato a picco sul fiume, dove in prossimità dei villaggi le donne scendevano a lavare i panni, mentre sopra finalmente si apriva uno splendido cielo azzurro, che fino allora era rimasto nascosto dietro la fitta foschia. Ovunque si ripetevano i cartelli che invitavano alla prudenza, ma il monito più efficace era l’impressionante sequenza di carcasse d’auto e di pullman rimasti ancora drammaticamente in mostra dopo gli incidenti più recenti, a testimoniare la pericolosità di quelle strade. Un’altra chiara idea di pericolo, ma di genere differente, la trasmetteva il transito incessante di mezzi militari, pieni di soldati con il mitra imbracciato: ho appreso così che la tranquilla casetta sul lago dov’ero destinato, la pittoresca località turistica sperduta tra le pacifiche montagne, si trovava a Srinagar, la capitale del Kashmir. Da quanto ne sapevo, il Kashmir aveva la poco invidiabile fama d’essere un posto particolarmente caldo, e non tanto per le afose temperature estive, quanto per via delle tensioni religiose tra hindu e musulmani, e dei violenti scontri tra India e Pakistan per i confini. Il fatto però che quel viaggio mi fosse stato proposto anche da agenzie turistiche governative mi portava a pensare che non ci fossero troppi rischi, o almeno così cercavo di convincermi mentre osservavo stupefatto lo spaventoso presidio dei militari, superati in numero solo dalle scimmiette che, lungo tutto il percorso, sedevano in gruppi sul ciglio della strada a guardar sfilare le macchine o a corrergli dietro saltellando.
Il ritardo continuava ad accumularsi, e intanto nei villaggi proseguivano le soste per rifocillarci, che passavo in compagnia di una coppia di simpatiche parigine già esperte dell’India, Elisabeth e Pascal, e di Anja, una ragazza di Berlino con un sorriso incantevole e i capelli rasati che le facevano risaltare i grandi occhi celesti, e soprattutto le facevano guadagnare l’attenzione di tutti gli indiani che incrociavamo: per i caratteri tradizionalisti degli indiani, specie nelle zone rurali, una ragazza con la testa rasata era evidentemente una bizzarria assai inconsueta, che non volevano proprio perdersi. Qualcuno rimaneva a fissarla, altri le passavano vicino per salutarla e poi scappavano via a ridacchiare con gli amici, e questa sua popolarità la divertiva molto, e divertiva anche me, che a ogni sosta, da bravo e comprensivo compagno di vizio, m’intrattenevo con lei a fumare prima di riprendere il cammino.
All’improvviso, quando ormai, a detta di qualcuno più informato di me, il ritardo rincorreva le cinque ore, una macchina ha affiancato il nostro autobus per farlo accostare, e due tipi, dopo aver parlato con l’autista, sono venuti di corsa da me a mostrarmi un foglio con il mio nome scritto a caratteri cubitali, dicendomi di correre giù a prendere lo zaino. Anche l’autista mi faceva segno di sbrigarmi, ho avuto appena il tempo di salutare le tre amiche e sono sceso giù, ho recuperato lo zaino dal bagagliaio, e sono salito in macchina con i due sconosciuti. Non solo avevo provato l’emozione dell’accoglienza con il cartello, anzi, mi avevano addirittura raggiunto col cartello prima di arrivare, ma ne avevo vissuta una ancora più singolare e ben più movimentata: una specie di rapimento turistico.
Era stato tutto così concitato e inaspettato che non m’ero neppure fatto lasciare gli indirizzi dalle tre ragazze, anche perché ero convinto che la nostra meta fosse un piccolo e inviolato laghetto di montagna dove ci saremmo potuti rintracciare facilmente, invece, chiedendo il perché di quel prelevamento da film d’azione hollywoodiano, mi hanno spiegato che il pullman si sarebbe allontanato proseguendo per una strada differente, per fermarsi vicino a un altro lago ad alcuni chilometri di distanza, e mi hanno anche detto che la zona era talmente vasta e dispersiva, i laghi più d’uno, e le case sul lago un’infinità, che sarebbe stato praticamente impossibile ritrovarsi. Ho provato un grande senso di frustrazione, peggio, un profondo dispiacere, nel veder crollare in un attimo tutte le aspettative che io e le tre nuove amiche avevamo modellato, con tanta cura, sulle prossime rilassanti giornate da trascorrere tutti insieme in riva al lago, in particolare con Anja, che viaggiava sola come me, e con la quale avevo avuto modo di legare di più durante le nostre condivisioni dei vizi. Ormai non c’era più niente da fare: le mie compagne di viaggio erano andate, perse, irrimediabilmente.
I due hanno poi iniziato a intavolare un accenno di conversazione con le solite domande di rito sul mio paese d’origine, sulla durata e la natura del mio viaggio, insomma quelle stesse domande che mi ero già sentito ripetere meccanicamente da tutti gli indiani che mi avevano avvicinato per vendermi qualcosa. Cercavano forzatamente di ostentare un’espressione d’interesse verso le mie risposte svogliate, ma anche loro, nonostante la buona volontà per conquistare la mia fiducia, non riuscivano a dissimulare il tono di noiosa consuetudine che traspariva in tutte le loro frasi. Terminate le presentazioni e i convenevoli, hanno cominciato con una più schietta auto-pomozione, che se non altro accantonava per un momento quel pesante clima d’ipocrisia che aveva saturato la macchina. Non ce n’era più alcuna necessità, io ormai ero lì, e per giunta avevo anche già pagato in anticipo la notte da loro, eppure volevano per forza convincermi di quale meraviglia di posto avessi avuto la fortuna di raggiungere: I monsoni? Quelli stanno a sud, qui nemmeno l’ombra. Le zanzare? Noooo, a quest’altitudine si sta freschi, di zanzare non se ne sono mai viste. A Delhi fa caldo e piove, vero? Qui no, qui il tempo è sempre straordinariamente bello, sei arrivato nel paradiso!
Questa solenne rivelazione è giunta proprio mentre si stava alzando un vento spaventoso, e il cielo in pochi attimi si era tutto coperto di grosse e pesanti nuvole nere: non ci voleva molto a indovinare che avrebbe piovuto a momenti, e infatti, appena terminata la frase, è venuto giù il diluvio, che per fortuna è durato solo pochi minuti. Tutto ciò non aveva minimamente intaccato la loro convinta ed entusiastica presentazione: non avevo di che preoccuparmi, continuavano a ripetere, non erano che poche gocce dopo tanti giorni di sole, il tempo sarebbe tornato subito bello, e adesso, grazie a quella provvidenziale pioggia, anche più fresco e più piacevole di prima! Che fortuna… Un vero paradiso!
Per le vie della città vedevo passare molte donne con il volto coperto dal velo, e ho chiesto se nella regione fossero più numerosi i musulmani o gli hindu; è probabile che paventassero qualche mia reazione di timore verso l’islam, e non avevano nessuna intenzione di farmi allarmare, non era bene che un turista appena arrivato in paradiso avesse di quelle preoccupazioni: mi hanno liquidato dicendomi che c’erano musulmani, hindu, sikh, c’era una gran varietà di religioni, di tutti i tipi. Eppure doveva esserci una religione più diffusa, ho insistito io; alla fine hanno dovuto dirmi che si, in maggioranza erano musulmani, ma dovevo stare tranquillo perché in India le religioni convivevano tutte in perfetta armonia, e nel dirmelo hanno sfoderato il sorriso più rassicurante che potessero improvvisare.
Poco dopo, a uno dei ricorrenti posti di blocco, ci ha fermato la polizia, ma è bastato che vedessero me per lasciarci subito andare: ne ho approfittato per chiedergli il motivo di tutti quei controlli, ma… non avevo visto? Per i turisti non c’erano problemi, si faceva soltanto qualche allegro e spensierato controllo a chi viveva lì, non dovevo proprio preoccuparmene, anzi, tutti quei militari erano una garanzia, rendevano quel posto ancora più sicuro. Anche stavolta ho provato a insistere, volevo sapere qualcosa di più sulla situazione del Kashmir e sugli scontri religiosi. La risposta è stata più o meno questa: dovevo stare tranquillo, nessuna apprensione per quelle sciocchezze che si sentivano dire in giro, quella era una zona sicura; c’era stata, si, qualche piccola scaramuccia, ma non era un argomento che riguardasse la popolazione, erano solo delle piccole e innocenti incomprensioni tra gli stati di India e Pakistan, peraltro già dimenticate: ormai era tutto risolto, adesso i due paesi godevano di splendidi rapporti d’amicizia. Era davvero troppo, non era il caso di manifestare ulteriori curiosità: non ho chiesto altro.
Siamo arrivati al lago, la casetta era in realtà un caratteristico barcone (una houseboat, come le avevano chiamate gli inglesi che le avevano costruite agli inizi del 1900), ma l’immagine che la contornava era ben diversa da quella che si poteva indovinare dalle foto viste a Delhi: era confusa tra centinaia di altri barconi e palafitte piazzati in ogni angolo del lago, proprio di fronte al centro abitato di Srinagar. L’interno era carino, una struttura molto semplice con due stanze da letto e un comodo soggiorno, tuttavia ero l’unico a occupare la barca, e l’idea di passare la serata lì da solo non mi allettava per niente, ho chiesto perciò di potermi recare in città per fare un giro, anche se era già buio non credevo fosse troppo tardi per muovermi. Sbagliavo. L’unico modo per raggiungere la sponda cittadina era farsi traghettare su una piccola imbarcazione simile a una gondola, però a quell’ora non ne passavano più, come m’informavano i miei gentili ospiti; ma perché me ne preoccupavo? Tanto fuori non c’era niente da fare, ormai in città era tutto chiuso, per strada non c’era più nessuno: mi hanno chiarito che era molto meglio per me se fossi rimasto nella mia stanza, così avrei avuto tutto il tempo per riposare, visto che avevo affrontato un lungo viaggio e dovevo per forza essere stanco. C’era poco da fare: era per il mio bene.
Benché questa disposizione per il mio bene mi lasciasse alquanto perplesso, se non c’erano mezzi per spostarsi la scelta era obbligata, non mi restava altro che accomodarmi sul divano del soggiorno e attendere la cena, offrendogli l’occasione ideale per presentarmi tutte le possibili escursioni a cavallo per i monti himalayani, con tanto di documentazione fotografica delle località più suggestive e dei loro ospiti più celebri: Messner, di nuovo, e Michael Palin dei Monty Python.
Dopo la cena e i sistematici rifiuti alle più disparate e insistenti proposte ho optato, più per lo sfinimento dovuto alle loro pressioni che per vera stanchezza, per una lunga notte di riposo nella mia stanza, dove avevano già acceso lo zampirone, perché, come ribadivano anche loro, di zanzare lassù non se n’erano mai viste, ma è sempre meglio prevenire, non si sa mai…