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Indiario

Ago, 2005 ~ Lascia un commento ~ Written by admin

Il pensiero d’essere rimasto da solo, e di aver perduto ogni traccia delle tre ragazze del pullman, mi aveva fatto precipitare l’umore giù dritto verso lo sconforto: mi mancavano i sorrisi di Anja, e trovarmi in un alloggio che sembrava tenermi prigioniero, senza la possibilità di uscire e vedere altra gente, non poteva che peggiorare le cose. Ho preso la guida, rimasta chiusa fino a quel momento, con l’intento di cercare qualche suggerimento per muovermi nei giorni successivi: sul Kashmir c’erano appena poche righe, ma erano già sufficientemente chiare ed esaustive. Sia la Lonley Planet sia il sito del ministero degli Affari Esteri, da cui avevo stampato alcune pagine che riguardavano l’India, erano concordi e perentori: il Kashmir non era assolutamente una regione sicura, visitare quella parte dell’India era sconsigliatissimo, un’autentica follia! Con una simile premessa, per una guida non c’era altro da aggiungere: non ci si doveva andare, inutile dilungarsi oltre. Punto.

Non sono un temerario che si cerca i pericoli per il puro gusto dell’avventura, non lo sono mai stato; malgrado ciò, in viaggio m’era già capitato che la curiosità mi portasse a imbattermi in zone o circostanze che potevano apparire imprudenti. La differenza, sostanziale, era che negli altri casi era stata una mia scelta consapevole, avevo deciso io di voler correre certi rischi; quella in Kashmir, invece, era una situazione diversa, stavolta ero andato a cacciarmi nei casini senza aver valutato nulla, stupidamente: non c’erano altre considerazioni da fare. Adesso dovevo starmene lì, da solo, rinchiuso tra due stanze in quel covo di avvoltoi, in una regione in cui i pericoli erano molto molto seri. Lo stato d’animo peggiorava, faticavo a prendere sonno, provavo una sensazione di tremendo disagio, di solitudine, di smarrimento, un’angoscia che forse non avevo mai provato prima in nessuno dei miei viaggi.

    Alla luce del giorno, la vista sul lago era gradevole, anche se evidenziava la trascuratezza da cui difficilmente le zone abitate dell’India riuscivano a salvarsi: la sfilza di case galleggianti, sistemate in fila sull’acqua stagnante, lasciava poco spazio ai canali in un lago, sovraffollato e sporco, dove negli anfratti le rane dovevano contendersi gli spazi con la spazzatura, e solo le estese ninfee, ricche di fiori di loto, cercavano di restituire all’acqua un tocco di bellezza naturale.

La città viveva di un’atmosfera tutto sommato composta, nonostante il frenetico caos dei mercati domenicali e l’assordante traffico, in cui nessuno si risparmiava mai una suonata di clacson; i ragazzi occupavano ogni spazio aperto per giocare a cricket, tutti parevano presi dalle loro attività, dai loro ritmi di vita indiana, e io mi guardavo intorno incuriosito per osservare quella realtà nuova, per cercare di comprenderne i meccanismi, eppure non riuscivo a superare quel muro che mi divideva da tutta la gente di lì, era un ambiente al quale mi sentivo ancora completamente estraneo. Non mancavano però, per intrattenersi, scene curiose e inaspettate, come quella di un uomo che dava da mangiare ai corvi distribuendo le frattaglie che teneva raccolte in un cartoccio, o quella di una donna che sul lago seguiva un uomo, urlandogli dietro con tanta foga da sembrare un ossesso: lui, giovane gondoliere dell’India del nord, stava in piedi sulla sua comoda barca, portando a spasso quattro turisti con un’andatura oltremodo lenta, e lei, con un’imbarcazione molto più piccola, l’aveva inseguito strillando, avvicinandosi rapidamente, ma poi si era arrestata, a non più di quattro o cinque metri di distanza, e mentre lui si mostrava impassibile e i turisti cercavano imbarazzati di guardare in qualsiasi altra direzione, lei continuava a remare accanto a lui, alla sua stessa pacata velocità da crociera, sbraitando improperi in hindi. Aveva la voce quasi strozzata dall’agitazione, un tono e uno sguardo furiosi che avrebbero voluto annientarlo, ma le braccia che incredibilmente riuscivano a remare lente, con un invidiabile e distaccato controllo, ad assecondare per tutto il canale l’andatura di lui senza mai raggiungerlo, senza mai invadere il suo spazio, in uno sfogo follemente equilibrato, che non trascendeva neppure nel momento di maggior accesso d’ira, e che persino nella rabbia feroce era misurato come solo in India è dato di vedere.

Nella houseboat riuscivo a sentirmi a mio agio solamente con il ragazzo che si occupava della cucina e dei lavori in casa, parlava un po’ di inglese, e con lui potevo abbassare la guardia: era un dipendente, perciò era l’unico che non voleva vendermi nulla. Al termine del pranzo s’è aggiunto anche Sajjad, un ragazzino di dodici anni che aveva da poco incominciato a lavorare lì, e con lui, che non sembrava troppo indaffarato, sono rimasto a chiacchierare in uno stentatissimo inglese per buona parte del pomeriggio, in cui mi ha raccontato della sua famiglia, della scuola e del villaggio dov’era cresciuto, descrivendomi la sua casa e chiedendo notizie della mia. Mi ha chiesto se avessi portato con me il cellulare e la macchina fotografica, e ha voluto vederli, per tenerli in mano, incantato, e giocare con tutte le applicazioni che riusciva a indovinare: sul cellulare ha impostato delle funzioni che io nemmeno sapevo di avere, con le dita che scorrevano rapide come saette a esplorare ogni tasto.

Ha voluto provare pure il carica-batterie, se lo girava tra le mani, lo studiava, lo ammirava, commentando con rammarico che nel suo villaggio non c’era corrente, poi mi chiedeva degli elettrodomestici, del televisore, e lo faceva con un’espressione rapita, ammaliata, ne subiva un fascino sbalorditivo. Non sapevo quale visione della vita occidentale avessero maturato in quei luoghi, ascoltando i racconti dei turisti che arrivavano, ma mi rendevo conto che Sajjad aveva già ben chiara la sua idea di un Occidente idilliaco, ricco e sviluppato, e di un’Europa che richiamava in lui un immaginario di benessere e tecnologia, un immaginario che io cercavo di sminuire, o se non altro di ridimensionare, rispondendo che avevo solo qualche vecchio elettrodomestico che neanche funzionava troppo bene, e che tutte quelle apparecchiature non erano poi così indispensabili; pensando a tutte le inutili sciocchezze che teniamo dentro casa, però, non riuscivo a contenere un fondo d’imbarazzo. Prima che facesse buio, l’altro ragazzo mi ha traghettato in città, e mi ha chiesto a che ora sarei tornato, raccomandandosi di non fare tardi e comunque di tornare prima delle 19.30; ho risposto che non avevo l’orologio, e lui mi ha lanciato un’occhiata di meraviglia: perché non avevo l’orologio? «Sei un uomo ricco, – mi ha detto perplesso – com’è possibile che te ne vada in giro senza orologio?!?»

    Dopo aver passeggiato su e giù per la strada che costeggiava il lago, mi sono seduto a gustarne meglio la vista, e vicino a me si è fermato un gruppetto di giovanissimi pescatori in erba: dei bambini che pescavano usando, come esca, una specie di pasta di pane, con cui si divertivano anche a fare le forme. Uno in particolare, il più espansivo e socievole, con il pane aveva modellato un cobra e me lo mostrava orgoglioso; mi mostrava pure i quattro pesci che avevano già catturato, e dopo aver preso confidenza mi ha offerto qualcuno dei frutti che aveva appena comprato da un carretto ambulante. Coi bambini era tutta un’altra cosa, quasi soltanto con loro riuscivo a percepire una comunicazione limpida, un interesse senza interessi.

Quando loro sono andati via, hanno ripreso ad assediarmi tutti gli altri. Le domande erano sempre le solite: come ti chiami, da dove vieni, da quanto tempo sei in India, e, a seguire, l’immancabile offerta di qualche servizio in cambio di un piccolo compenso. Certi, poi, si accontentavano di provarci, disposti ad accettare anche un rifiuto, ma altri insistevano fino all’esasperazione, e arginarli diventava sempre più difficile. Io mi affidavo a una valida tecnica che avevo studiato e messo a punto per l’occasione: il segreto è muoversi sempre, non dare punti di riferimento, come nella boxe. Bisogna camminare veloci, fingersi impegnati e non mostrare interesse per nulla, procedere decisi con aria assorta e indaffarata senza guardarsi troppo intorno. Se ti fermi sei perduto: ti circondano e non sai più come uscirne. Uno di loro, però, non si è lasciato scoraggiare nemmeno dalla mia magistrale interpretazione da boxer, e alla fine ho ceduto, anche perché, per quanto efficace, era una tecnica piuttosto stancante. Gli ho immediatamente chiarito che non mi occorreva nulla e che stava sprecando il suo tempo, ma lui l’aveva presa molto larga: mi ha detto che andava bene, che non aveva intenzione di fare affari con me, ma che potevo quantomeno insegnargli qualche parola in italiano, per aiutarlo ad avvicinare gli altri turisti con maggior spigliatezza. Era curioso di sapere come si viveva in Italia, delle nostre abitudini, e soprattutto dei nostri stipendi, giacché sulla copertina del mio libro aveva scorto il prezzo sconcertante di 15 euro: circa 800 rupie, per molti di loro era quasi una settimana di salario!

Ogni tanto abbozzava un vago tentativo di propormi qualcosa, dicendomi che i prodotti del Kashmir erano assai economici e di ottima qualità, ma un istante dopo mi tranquillizzava: «No, no, non preoccuparti, non voglio fare affari con te, è solo un consiglio da amico». Prima che la concentrazione di spettatori, che si stava formando attorno a noi, rischiasse di assumere i connotati di manifestazione non autorizzata, l’ho salutato per andare via, e lui mi ha detto che più tardi, per tornare alla mia houseboat, potevo farmi portare da lui, ammettendo candidamente: «Ok, va bene, sarò sincero: adesso si, adesso voglio fare affari con te», tra il tripudio dei suoi sostenitori che mi raccomandavano di accettare, ripetendo che era il suo lavoro e che se lo meritava perché era un bravo ragazzo. Mi sono informato sul prezzo, facendogli presente che generalmente pagavo 10 rupie, e lui ha chiesto il doppio. «Ehi, ma 20 rupie sono un sacco di soldi» gli ho detto sorridendo, e lui, rispondendo al mio sorriso: «20 rupie un sacco di soldi? …Con tutto quello che spendi per comprare un libro!».

Ho accettato la sua offerta per il trasporto in barca, ma non subito, sarei andato più tardi, al termine di un’altra passeggiata; ho camminato solamente pochi metri, però, prima di bloccarmi di nuovo, incredulo, a causa del più inaspettato degli incontri: davanti agli occhi mi sono apparsi gli occhi di Anja.

Avevo perso tutte le speranze di rivederla, è stata una sorpresa incredibile. Ci siamo scambiati un lungo abbraccio, poi mi ha detto che sarebbe venuta a trovarmi dopo cena nella houseboat perché la sera, almeno sul lago, si poteva ancora girare, ma adesso dovevamo sbrigarci a rientrare: per stare in città era già tardi. Mi ha così esposto un paio di importanti questioni che le erano state prontamente illustrate appena giunta a Srinagar, e che, altrettanto prontamente, pensava avessero già chiarito anche a me, ma che ai due angeli del mio paradiso dovevano essere sfuggite: la prima era che le 19.30, l’ora che mi era stata indicata per il rientro, non era saltata fuori per caso, bensì era l’orario in cui tutte le sere iniziava il coprifuoco, dopo quell’ora i militari, che già cominciavano a raggrupparsi in massa intorno alle vie del centro, diventavano pericolosamente severi; in particolare, e questa era la seconda questione, c’era una zona, teatro di frequenti sparatorie, che era inaccessibile anche di giorno, e lì avrei dovuto fare attenzione a non avvicinarmi per nessun motivo.

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