La sera siamo stati finalmente insieme nel mio alloggio, a sorseggiare dell’eccellente kashmir chai (il tè locale) e un’imbevibile birra indiana, che di birra aveva solo il nome sull’etichetta ma che in realtà sembrava una specie di dolcissima gazzosa. Intanto ci raccontavamo le storie dei nostri viaggi, i nostri sogni, e i nostri sguardi sull’India. Per Anja era la seconda volta, e pensava fosse il posto migliore per recuperare un benessere interiore che credeva d’aver perso dopo un periodo difficile vissuto in Germania; era partita senza neanche sapere quanto tempo si sarebbe fermata, probabilmente finché le sarebbero bastati i soldi, ed era salita su quei monti alla ricerca di serenità, prima di ritirarsi per un periodo in un monastero buddista dove avrebbe appreso la conoscenza della meditazione: voleva esplorare la sua spiritualità, e per farlo contava sull’aiuto dell’India, dei suoi monaci e delle sue pacifiche montagne. La serata è andata via rapida e gustosa, tranne che per l’insolita e invadente affluenza cui era stato sottoposto il piccolo soggiorno della houseboat. Per due giorni in quella stanza non si era visto quasi nessuno, il proprietario e il suo socio erano sempre stati latitanti, m’era toccato corrergli dietro per qualsiasi cosa mi servisse, riuscendo soltanto di rado a scovarli da qualche parte; stavolta invece si erano inchiodati lì tutti e due, s’erano addirittura portati il piatto con la cena e non volevano saperne di andarsene, anzi, cercavano continuamente di inserirsi nella conversazione. In più c’era il cuoco tuttofare che occasionalmente faceva capolino per sbirciare, e per finire si è presentato pure un vicino di casa, che cercava di fingere d’esser capitato lì per caso, recitando una parte totalmente priva di credibilità poiché non riusciva a staccare gli occhi da Anja. Non avevo mai visto un viavai così intenso in quelle stanze… Anja aveva colpito ancora!
Mi sarebbe piaciuto trattenermi qualche altro giorno con lei, aveva programmato una lunga escursione nei dintorni di Srinagar con una guida locale, e la tentazione di accompagnarla era decisamente forte, ma avevo già stabilito di ripartire all’indomani per guadagnare tempo: pur senza la minima idea di quale fosse, avevo ancora molta, troppa strada da fare.
Ho ripercorso di nuovo, il mattino dopo, lo stesso avventuroso tragitto dell’andata, che si stendeva da Srinagar per tutto il sud del Kashmir e oltre, fino al lunghissimo tunnel di Jawahar, annunciato da un bizzarro cartello che candidamente, e non senza mostrare una buona dose di autoironia, ammetteva più o meno che si, forse a molti di quelli che passavano lì sotto poteva esser capitato di attraversare gallerie più moderne e rifinite, ma che loro garantivano la cosa più importante: la sicurezza.
All’uscita il panorama appariva radicalmente trasformato, in un attimo avevamo lasciato i paesaggi morbidi che ci avevano accompagnato per tutto il Kashmir, di un verde chiaro e riposante, morbido anch’esso, e c’eravamo ritrovati su di una montagna dalle forme e dai colori più spigolosi, più netti, con le imponenti rocce vestite di una vegetazione prepotente, selvaggia, dal verde più aggressivo. Continuavano invece immutate le scene tipicamente indiane che si presentavano dentro e fuori i villaggi, le bellissime donne indiane avvolte nei loro sgargianti sari di seta colorata, gli uomini che fumavano in compagnia fuori dalle case, gli infaticabili santoni che camminavano per quei percorsi impervi e si fermavano nei paesi a elemosinare, i distributori di benzina con le pompe a manovella, e i bambini che lavoravano fin dalla tenera età, già contadini e piccoli pastori. Un’altra delle scene che purtroppo rimanevano immutate erano i continui posti di blocco, dovuti probabilmente al pericolo di attentati, che alimentavano un certo stato di tensione, benché riflettessi che anche dalle mie parti, nello stesso periodo, il rischio attentati era alle stelle, quindi in fondo non avevo motivo di agitarmi più del solito. Inoltre, non avevo ancora ben deciso se essere più spaventato per il pericolo degli attentati o per il folle che era alla guida del nostro pulmino, un sikh con una folta barba e due inguaribili passioni: una, innocua, per il clacson, che suonava regolarmente e il più delle volte senza motivo, e l’altra, molto più insana e preoccupante, per il sorpasso dei camion a inizio curva. Nell’apprensione su quei tornanti stretti, che sembravano tenersi in equilibrio tra la roccia e il nulla, mi tornava in mente il cartello esposto sul tunnel: non potevo che condividere, anch’io lì mi ero sentito più al sicuro… almeno dentro la galleria non c’era il rischio di precipitare!
Inspiegabilmente non ci siamo sfracellati, e siamo arrivati tutti interi a Jammu. Come spesso mi capitava in viaggio, ho incontrato l’immancabile gruppo di israeliani; stavolta erano in sei, poco più che ventenni, con cui mi sono fermato a bere qualcosa appena scesi dal pulmino. Subito dopo la sospirata e rigenerante pausa, i sei avrebbero preso un fuoristrada per dirigersi dalle parti di Dharamsala, c’era un posto in più e mi hanno proposto di aggregarmi a loro: insieme la spesa sarebbe stata più conveniente per tutti. Sebbene fosse già pomeriggio, e la marcia non sarebbe terminata prima di notte, ho accettato di buon grado la provvidenziale offerta, perché mi sarei avvicinato a una delle zone che volevo visitare, e soprattutto perché, dal poco che avevo potuto vedere di Jammu, non sembrava che andando via mi perdessi poi molto.
Abbiamo fatto una sosta per mangiare in uno degli onnipresenti caratteristici dhaba, locali per la ristorazione a metà tra bar e bettola e tipicamente vegetariani, dove io, non sapendo cosa prendere, ho ordinato le due cose più colorate che sono riuscito a vedere, tanto per non sbagliare: mi sono capitati un piatto di verdure e uno di formaggi, entrambi affogati in pregevoli salse ricche di aromi esotici. Abbiamo concluso la deliziosa cena con un ottimo tè, che a detta dei ragazzi, diventati ormai esperti dopo tre mesi di viaggio, era uno dei migliori che avessero provato in tutta l’India; per me invece era il primo vero chai indiano, che a differenza di quello del Kashmir viene preparato con l’aggiunta di latte e spezie. In macchina ho provato anche un’altra specialità indiana, l’hashish che i ragazzi si erano portati dal Kashmir, giacché pure loro non erano diversi dalla maggior parte dei giovani israeliani che avevo incontrato in altri posti: degli estremisti del fumo.
Aveva fatto buio da un po’, l’autista alla guida era impeccabile, e il viaggio proseguiva tranquillo fino a che un piccolo animale dal pelo chiaro ci ha attraversato davanti. Al principio ho pensato che fosse un gatto, ma quando l’autista ha frenato per accostare immediatamente, ho creduto che avesse visto qualche raro animale tipico di quelle aree, e che si fosse fermato per mostrarcelo. Invece no, aveva spento il motore annunciandoci che da lì in poi dovevamo procedere a piedi: non più di cinque minuti di cammino, diceva, e avremmo scorto un centro abitato, dove certamente saremmo riusciti a trovare un altro taxi. Siamo rimasti sbigottiti, guardandoci increduli tra noi, poi qualcuno ha intuito che potesse essere per il gatto, un atto di scaramanzia, e aveva ragione. Abbiamo provato a persuaderlo in tutti i modi, forti del fatto, tra l’altro, che il gatto aveva il pelo chiaro, ma non c’era verso, lui urlava che questo non voleva dire nulla: pur non essendo nero, era sempre un gatto, e lui non avrebbe percorso un metro in più, potevamo riprenderci i nostri bagagli e andare. Per fortuna è sopraggiunta un’altra macchina che veniva in senso contrario, ignara degli eventi e delle nostre discussioni, e ci ha liberato dal maleficio. Solo in seguito all’insperata e inconsapevole intercessione, s’è deciso a ripartire anche il nostro buon taxista, assicurandoci che avventurarsi prima sarebbe stata una follia: se si passa dove ha attraversato un gatto, succede per forza qualcosa di molto brutto, non si scappa, di qualsiasi colore sia il gatto.
L’ultimo ostacolo, e nemmeno tanto piccolo, è stata una frana caduta da poco, che aveva bloccato l’intera carreggiata. Dopo diversi altri giri abbiamo scovato una stradina alternativa, e finalmente siamo giunti al villaggio che cercavamo, Bhagsu: erano passate le due di notte, ero sbarcato esattamente da tre giorni, settantadue ore di India, e più della metà di queste le avevo trascorse tra macchina e pullman. La luce del giorno ha poi svelato le forme del paesino, che al nostro arrivo erano rimaste celate sotto le tenebre: era un piccolo villaggio cresciuto tra due ruscelli sul fianco di una maestosa montagna, e quando la foschia era più clemente e lasciava la veduta libera agli occhi, si poteva ammirare in basso lo splendido panorama della vallata. La sola cosa che ridimensionava la seduzione di un villaggio così pittoresco era il sovraffollamento di turisti, in particolar modo d’israeliani, ma questo, conoscendo gli israeliani, un po’ dovevo aspettarmelo: hanno la tendenza a scegliere dei posti e ad andarci tutti in massa, fin quasi a saturarli. Anche il gruppo che mi aveva portato lì sembrava voler cercare in India le atmosfere di casa, e a Bhagsu potevano senz’altro trovarle: c’erano le insegne dei ristoranti e i menu scritti in ebraico, e soprattutto abbondavano i loro piatti tipici, come i falafel, delle saporite polpette fritte di pasta di ceci che con l’occasione ho potuto provare anch’io, tanto per me tutto era una novità. Falafel a parte, trovavo inconcepibile come ci si possa spostare di migliaia di chilometri, scoprirsi immersi in una realtà incredibilmente differente, in un posto tanto remoto all’interno di una terra di culture così antiche e ricche, così radicate, per poi ricercare le cose che ci appartengono, la nostra gente e le nostre piccole abitudini consuete che possano renderci quel posto più familiare; l’ho sempre considerata un’assurda e bizzarra deviazione per chi va a visitare un altro paese, è come se decadesse quello che dovrebbe essere lo stimolo principale per affrontare un viaggio: il desiderio di conoscere.
C’era anche un gran numero di turisti indiani, che salivano dalle regioni vicine a cercare il fresco e una tregua dai monsoni; quel turismo era un fenomeno in piena crescita, come da noi negli anni del boom economico: arrivavano macchine traboccanti di valige legate, di passeggeri e d’entusiasmo, e per la strada giravano eccitati i gruppi di ragazzi, o le famiglie, a fotografare tutto ciò che vedevano di nuovo, compresi noi turisti stranieri (va detto che questo accadeva un po’ a tutti noi, ma nella scelta dei soggetti, per forza di cose, le ragazze bionde erano di gran lunga le più gettonate).
I ragazzi israeliani hanno subito preso confidenza con un Baba, uno dei santoni vestiti di arancione che si spostano in pellegrinaggio da un luogo all’altro a mendicare, per raggiungere l’illuminazione con l’aiuto dello yoga, dell’ascesi, e della ganja (per chi non avesse familiarità con il termine, la marijuana); quest’ultimo, tra tutti gli elementi, era certamente quello che più attraeva i miei amici. Una volta, santoni e fachiri, giravano per i villaggi a dare dimostrazione delle proprie abilità per testimoniare la loro vicinanza alle divinità hindu, vivendo dell’elemosina dei fedeli, e alcuni lo facevano ancora, almeno nelle zone più remote, ma a Bhagsu, con tutti i turisti che c’erano, quel Baba era diventato una specie di grottesco fenomeno da baraccone, che faceva il pagliaccio davanti agli stranieri in cambio di qualche moneta. Addosso si portava comunque il fascino di una vita di scelte estreme, e ci ha onorato della sua compagnia e delle sue eccentriche esibizioni al tavolo di un bar, in cambio del chai e del giro di chillum che avevano gentilmente offerto i ragazzi.