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Indiario

Ago, 2005 ~ Lascia un commento ~ Written by admin

Per la cena, stavolta rigorosamente indiana, sono stato in un piccolo ristorante con una coppia di altri israeliani che alloggiava nella stanza accanto alla mia, e più tardi s’è aggregato uno svizzero sulla cinquantina, un altro personaggio singolare e un po’ scorbutico, viziato dal lungo vagabondare. Non sono sicuro di ricordare correttamente il nome con cui si è presentato, mi pare che si chiamasse Kashir o qualcosa di simile, ma non ha molta importanza, perché tanto il nome se lo cambiava continuamente: l’ha cambiato subito dopo, e poi l’avrà ricambiato chissà quante altre volte. Diceva che il vero nome è quello che ci si sente dentro, che deve esprimere la personalità e lo stato d’animo di ciascuno, e si dovrebbe cambiare ogni volta che qualcosa in noi muta, che ci si sente diversi da come si era prima: il nome non possono appiccicartelo gli altri, come si fa con gli animali, il nome uno se lo sceglie, è un segno di libertà. Raccontava di essere in viaggio da più di trent’anni, e da ventuno non tornava a casa sua, o in quella che una volta lo era stata.

Aveva l’aspetto burbero e orgoglioso di chi sa d’aver vissuto molte esperienze e non crede che gli altri possano comprendere, e ancor meno sostenere, la sua saggezza; parlava come se non avesse più niente da imparare, come se tutto quello che potesse vedere o ascoltare fossero cose già viste e già sentite, che lo annoiavano. Teneva la conversazione con un distacco così marcato da apparire studiato, un atteggiamento che forse aveva cominciato ad assumere per dare forza e credibilità a un personaggio che s’era costruito addosso, ma che adesso sembrava diventare lo specchio del suo carattere di uomo solitario, poco incline alla tolleranza e al confronto. Fino a cinque anni prima aveva vissuto facendo piccoli lavori di artigianato, poi però aveva deciso che non avrebbe lavorato mai più, non voleva saperne dei soldi, del sistema, e dei governi che si servivano del denaro e del ricatto economico per schiavizzare la popolazione: il lavoro è il laccio che il sistema ti mette al collo, diceva, ma lui di lacci non ne voleva, lui era un uomo libero. Raccontava anche che, se fosse tornato in Svizzera, avrebbe avuto diritto a un sussidio statale che gli avrebbe permesso un invidiabile tenore di vita, invece a lui non interessavano quegli sporchi soldi con cui gli altri si lasciavano pagare la propria libertà, lui era diverso, non era in vendita, il suo onore era più importante di tutto, anche della sua stessa vita. Era un mendicante di professione, si definiva così; se qualche amico voleva aiutarlo, bene, ma a lavorare non si sarebbe mai più piegato. Stavo per chiedergli che senso avesse quell’apparente intransigenza: i soldi dell’amico non erano forse gli stessi sporchi soldi frutto del lavoro di qualcuno? Non era il medesimo denaro con cui uno spregevole governo aveva comprato la libertà dei suoi amici, che lavorando si erano piegati ad accettare i compromessi del sistema? Prendere quei soldi non era comunque la legittimazione, anche da parte sua, di una qualche forma di schiavismo sociale? Però mi sono fermato, non gli ho detto nulla, non sarebbe servito a distoglierlo dalle sue convinzioni.

    A un paio di chilometri da Bhagsu si trovava McLeod Ganj, dove aveva sede il governo tibetano in esilio, e dove aveva la sua residenza ufficiale il Dalai Lama; ci sono andato la mattina dopo, approfittando del timido sole per una bella passeggiata tra le montagne. La visita al tempio del Dalai Lama era una delle tappe che mi stavano più a cuore, sia perché il buddhismo era un elemento imprescindibile della cultura indiana, che aveva contribuito a caratterizzare la natura mite e pacifica che addolciva gli sguardi di molte delle persone che incontravo, sia perché avevo sempre apprezzato in modo particolare quella religione, ne subivo il fascino, e sapermi immerso in un tale santuario dello spirito mi riempiva d’emozione, sebbene, questo per onestà va detto, la mia attitudine alla spiritualità fosse tendenzialmente paragonabile a quella d’una pianta grassa spinosa di piccole dimensioni.

Malauguratamente, il Dalai Lama non era lì: proprio quando io ero andato a trovarlo, lui se ne stava in giro per l’Europa, anzi, qualche giorno prima era stato in visita anche in Italia, probabilmente per ricambiare in anticipo la cortesia. Ho potuto, però, vedere da fuori la sua casa: un villino modesto, senza grosse pretese, e per di più accessibile, prenotandosi in tempo, a chiunque volesse richiedere un colloquio privato con l’illustre inquilino. Ho anche, e soprattutto, potuto visitare il tempio, che mi ha letteralmente sbalordito: a parte l’enorme statua dorata del Buddha che troneggiava da dietro l’altare, era tutto estremamente sobrio, senza nessuna evidente concessione al lusso; tutto il complesso era di una semplicità disarmante, come lo era il loro culto. Il tempio era una costruzione squadrata in cemento, avara di rifiniture, circondata da un piccolo cortile coperto da una tettoia in plastica, e mentre lo guardavo, sorpreso, mi sorgeva immediato l’impietoso paragone con lo sfarzo cattolico che spadroneggiava in Vaticano.

Per le strade della cittadina si notava un intenso viavai di monaci, molti dei quali avevano seguito il Dalai Lama nel suo esilio dal Tibet, come anche gran parte della popolazione, i cui volti tradivano con chiarezza i lineamenti tibetani; per il resto c’era una frenetica attività turistica, ben più che a Bhagsu, con negozi, bancarelle, e volantini affissi in ogni angolo, sui quali venivano pubblicizzati i più svariati corsi di filosofia buddhista, reiki, meditazione, yoga, e qualunque altra pratica immaginabile, fino ai corsi di cucina indiana e tibetana.

Immancabilmente, quando provavo a sedermi in disparte per concedermi un momento di riposo, c’era qualcuno che si avvicinava per attaccare discorso, incapace di resistere alla curiosità, e pareva non ci fosse cosa tra le mie insignificanti banalità che non li incuriosisse: dai vestiti, al libro scritto in italiano, alla bustina di tabacco da rollare. Spesso era gente del luogo, ma ancora più spesso erano gruppetti di altri indiani che si trovavano lassù per le vacanze; si piazzavano tutti lì attorno e non davano alcun segno di poter schiodare. Una parte di questi si fermava solo per guardare, e se ne stavano immobili, come tante statuine, a fissarmi a un metro di distanza, molti altri invece cercavano in qualche maniera di comunicare, di parlarmi, benché capissi ben poco del loro strampalato inglese, e assolutamente nulla del loro hindi. Volevano sapere tutto, chiedevano qualsiasi cosa gli passasse per la testa, forse in cerca di conferme alle fantomatiche storie che dovevano aver sentito sulle stranezze dei costumi degli occidentali, e poi si guardavano tra loro per condividere ogni risposta. I gruppi diventavano sempre più numerosi, si facevano coraggio anche quelli che non avevano avuto la sfrontatezza di avvicinarsi per primi, e in pochi minuti ci si trovava circondati da una folla di curiosi che cercava di ascoltare, di capire anche solo una parola per poi riportarla a tutti gli altri. C’era infine qualcuno più sbruffone che, tentando di far colpo sugli amici, si avvicinava per esibirsi in qualche provocazione sul sesso, aiutandosi con i gesti canonici riconosciuti universalmente in tutte le nazioni senza distinzione di lingua né di cultura, oppure per burlarsi dello straniero di turno, storpiando le sue parole, tra le risatine dei compagni.

A Bhagsu, in serata, ho incontrato di nuovo lo svizzero, impegnato a progettare una specie di gioco di ruolo, con delle carte da gioco disegnate da lui, che si sarebbe dovuto chiamare “freedom fighter”, un’allegoria della lotta per la libertà che si giocava tra oppressi e oppressori, per il quale stava studiando le regole da applicare e i disegni delle carte, ricchi di simbolismi. Il suo obiettivo era usare il gioco come metodo didattico per le sue lezioni di spiritualità e di liberazione interiore: sosteneva che le immagini e l’attività ludica sarebbero state lo strumento migliore per comunicare con il subconscio dei suoi futuri allievi, per arrivare a un livello più profondo, cui parola e ragione non avevano accesso, e per liberarli così da tutti quei tabù di cui nemmeno si rendevano più conto, quei tabù che senza accorgercene abbiamo tutti, stratificati in centinaia d’anni di culture oppressive che hanno soggiogato l’uomo impedendogli di esprimere con naturalezza sé stesso e le proprie libertà. Una volta che il gioco avesse aperto la breccia, gli allievi sarebbero stati pronti per assorbire direttamente la vera essenza delle sue lezioni di emancipazione sociale e spirituale, e per farsi guidare da lui verso una nuova e inesplorata autodeterminazione.

    Una bozza d’itinerario, seppur sempre molto vaga, mi si stava nel frattempo delineando nella mente: ancora qualche tappa tra le montagne per goderne l’incanto e il fresco, e poi, per la seconda metà del viaggio, sarei andato ad affrontare il temuto clima monsonico delle regioni più calde, scendendo giù fino a Varanasi, per poi passare ad Agra e proseguire in linea orizzontale fino al deserto, con la speranza che il peggio dei monsoni fosse ormai alle spalle. Sono restato tra Bhagsu e McLeod Ganj un altro giorno, poi con l’autobus notturno mi sono diretto a Manali salendo ancora di quota fin sopra ai duemila metri, per passare lì la giornata e trasferirmi prima di sera a Naggar, un piccolo villaggio che distava una ventina di chilometri, dove già da Bhagsu avevo prenotato una stanza presso una guesthouse, una piccola pensione, su indicazione dei miei vicini israeliani. C’era solo un problema: quella pensione sembrava avesse molte richieste, e si erano raccomandati di richiamare in mattinata per confermare la prenotazione; arrivato a Manali, però, non ho più trovato il foglietto su cui avevo segnato il nome e il numero di telefono.

Ho lasciato lo zaino in una guesthouse nella quale avevano preso alloggio certi italiani che avevo conosciuto in pullman, e ho chiesto al tipo che lavorava lì se era possibile avere un elenco telefonico di Naggar, per provare a risalire al numero che avevo smarrito; lui mi ha risposto prontamente che si, aveva l’elenco, ed è rapidamente salito al piano superiore dicendomi di attendere lì: me l’avrebbe portato subito. Dopo alcuni minuti, non vedendolo, sono andato a cercarlo di sopra, e l’ho trovato in una stanza, seduto, a sfogliare una rivista. Ho chiesto di nuovo l’elenco, pensando che l’avesse scordato, lui è saltato in piedi e mi ha nuovamente indicato di aspettarlo di sotto, mentre si allontanava precipitosamente per il corridoio. La stessa scena si è ripetuta identica per altre due o tre volte, e a ogni mio sollecito si prodigava in sfolgoranti sorrisi, mostrava d’essere tutto intento a esaudire la mia richiesta, mi ripeteva di aspettare solo un momento, e poi si dileguava, con la rapidità d’un uragano. L’ultima volta che l’ho rintracciato di sopra, come sempre, a ciondolare con l’aria sfaccendata, ho provato a metterlo alle strette, e l’ho seguito nonostante lui avesse accelerato il passo, dicendogli che era urgente, e che per fare prima e per evitargli di dover scendere a portarmi l’elenco, sarei andato con lui a prenderlo, dovunque fosse. Si è fermato, e con una punta d’imbarazzo ha indicato dal cortile una piccola costruzione in fondo alla via, spiegandomi che quello era l’ufficio postale, dove avevano l’elenco, e che, appena l’ufficio avesse aperto, verso le nove, lui sarebbe andato a chiederlo in prestito per portarmelo. Alle nove…

…e mancava ancora un quarto d’ora alle otto!

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