Me l’ero già chiesto in altri posti quando, appena giunto, cominciavo a guardarmi intorno un po’ disorientato; anzi, a pensarci bene era la solita domanda che mi rimbalzava in testa quasi sempre il primo giorno di un viaggio: «Ma che cosa ci faccio io qui?!?». Per fortuna, so che poi passa. A Shanghai però, dove difficilmente riuscivo a farmi capire da qualcuno, dove avevo problemi perfino a chiedere indicazioni per raggiungere l’ostello, quella domanda sembrava più azzeccata che mai.
Era il mondo più distante in cui mi fossi mai spinto, forse non il più lontano, ma certamente il più diverso. Erano i cinesi, soprattutto, ad apparirmi distanti, una popolazione con radici e tradizioni di cui conoscevo poco, perché dei cinesi si sentiva parlare con frequenza ma in realtà non se ne sapeva quasi nulla; era un popolo per molti versi misterioso, era questa l’unica vera idea che mi ero potuto fare di loro, insieme a qualche altro banale e grossolano luogo comune.
I cinesi sono chiusi, forse è ciò che alimentava quell’alone d’oscuro enigma che immancabilmente li accompagnava; dovunque s’andassero a insediare, in ogni parte del mondo, creavano comunità popolose che spesso tendevano a rimanersene in disparte, senza esporsi, senza partecipare, difficilmente interagivano con la gente del posto più dello stretto necessario, a volte nemmeno quello: i cinesi ci sono, ma non si vedono. All’estero acquistavano case, negozi, diventavano sempre più numerosi, compravano interi quartieri, ma restavano quasi invisibili; non si sapeva quanti fossero, si diceva che se ne stessero tutti nascosti, a lavorare a ritmi massacranti, senza farsi mai vedere in giro; molti dicevano di non averne mai visti in un ospedale, di non aver mai avuto notizia della morte di un cinese, si sentiva dire che quando succedeva che un cinese morisse, lo facevano sparire e al suo posto ne arrivava sempre uno nuovo, …dicono che i cinesi non muoiano mai.
I cinesi lavorano senza sosta, molti in Cina non tornavano nemmeno a casa per la notte, dormivano direttamente sul posto di lavoro: avevano le tende nei cantieri, per accamparsi, o si stendevano una branda nei negozi, che rimanevano aperti quasi ininterrottamente, lavorano così tanto che qualche volta crollavano dalla stanchezza, e spesso si vedevano negozi aperti con i negozianti appisolati sul bancone.
I cinesi, si diceva, sono sporchi. Anche questo era un altro luogo comune, però sembrava particolarmente condiviso dagli occidentali che vivevano da quelle parti: era un commento che sentivo ripetere in continuazione. Non tutti i cinesi, ovviamente, meritavano quell’indecoroso e severo giudizio, ma era un argomento popolare e perciò inevitabile, che incoraggiava sempre un’ampia partecipazione nelle discussioni tra gli stranieri, e provocava in molti uno spiccato trasporto. Tra i tanti che arricchivano le conversazioni con aneddoti e considerazioni, nel nostro ostello di Shanghai, il più accalorato era un ragazzo americano che si era stabilito lì a fare l’insegnante d’inglese, e che aveva talmente a cuore il tema dell’igiene, da aver scritto una lettera a un giornale per esprimere le sue osservazioni in proposito. Nella lettera criticava lo scarso utilizzo del sapone, e per avvalorare la tesi citava le proprie esperienze personali, e ne aveva parecchie da raccontare. Tempo addietro, su un treno, gli era capitato di trovare il suo posto occupato da due papere che avevano pisciato dappertutto, e dopo averle fatte scendere discutendo col proprietario, e chiamato gli addetti per le pulizie, questi si erano limitati a prendere la scopa per dare una spazzata sui sedili, sbrigativa quanto inutile, ed erano andati via soddisfatti ritenendo concluso il lavoro; lui ne era rimasto scandalizzato. Riportava anche l’esperienza di un suo amico, che viveva con la moglie cinese, il figlio avuto da poco, e con i suoceri, che si erano stabiliti a casa sua. Nella premura di voler dare una mano, il padre di lei ogni giorno si affrettava a ripulire la cucina, ma usava sempre lo stesso straccio, per settimane, senza mai lavarlo, così, dopo averglielo fatto notare, il ragazzo aveva comprato un flacone di ammoniaca, ne aveva messa una piccola dose in un secchio, e aveva pregato il suocero, ogni volta che avesse terminato di usare lo straccio, di rimetterlo lì perché si disinfettasse, argomentando, per convincerlo, che era necessario per il bene del bambino. Appena se n’era presentata l’occasione, invece, il suocero aveva rovesciato “accidentalmente” il secchio, per rimarcare quanto quella sostanza maleodorante fosse pericolosa proprio per il bambino, e rinnovando il suo deciso rifiuto a fare una cosa così inutile e fastidiosa.
Esauriti tutti i suoi racconti, l’americano è andato in bagno, per riuscirne con un nuovo episodio che s’era appena aggiunto al suo bagaglio: anche lì non aveva trovato il sapone, e l’aveva fatto presente a una ragazza che lavorava nell’ostello, chiedendole come fosse possibile che nessuno di loro l’avesse notato; lei aveva risposto, candidamente, che non poteva accorgersene perché lei il sapone non lo usava. «Non mi piace usare il sapone! - continuava a ripetere l’americano, ancora sbalordito - Mi ha risposto proprio così, con queste parole: Non mi piace!».
Ho cominciato a familiarizzare con Shanghai, sconcertante e inenarrabile tempio alla modernità, e con la sua foresta di grattacieli; poi, gradualmente, anche con le prime singolari abitudini cinesi, tra cui le bacchette, con le quali riuscivo, seppur con lentezza, a mangiare quasi tutto, anche se a fine pasto restavo con la mano piuttosto indolenzita. Ho passato così le prime due giornate, ad assorbire piccoli e grandi elementi di novità, ma senza travolgenti entusiasmi; la terza notte invece, con Martina, una ragazza spagnola, ero già in treno sulla strada per Beijing (o, in italiano, Pechino). Forti dei consigli di altri girovaghi con cui c’eravamo consultati, ci siamo subito sistemati in un buon ostello, e lentamente ho cominciato a entrare in sintonia con una città che, sebbene avesse anch’essa confini sterminati, una smisurata popolazione, e occupasse stabilmente posti di vertice in tutte le classifiche per l’inquinamento, al confronto con Shanghai appariva più semplice, vivibile e accogliente.
Per i pochi giorni che avevo da spendere, sono riuscito a visitare le attrazioni più caratteristiche e più rinomate: alcuni scorci dei borghi antichi nei quartieri popolari, le strabilianti testimonianze del periodo imperiale, gli incantevoli giardini sapientemente decorati con composizioni di aiuole e pietre dal raffinato gusto asiatico, ma soprattutto ho potuto osservare meglio i cinesi, scoprire le loro abitudini, apprezzare quella loro tipica pacatezza orientale, e imparare qualcosa in più del loro modo di essere.
Se la sensazione di totale smarrimento del primo giorno s’era gradualmente affievolita, le difficoltà di comprensione restavano però inalterate: nella mia totale e persistente ignoranza della loro lingua, continuavo a girare per le strade senza capire nulla, a perdermi tra caratteri grafici e suoni di voci indecifrabili. Anche quest’aspetto, tuttavia, aveva acquisito un suo fascino: la sensazione d’essere in balia degli eventi, senza una guida né un dizionario, con la consapevolezza di avere ben poche probabilità di trovare qualcuno che mi capisse, era a suo modo stimolante, pur se devo ammettere d’aver fatto ricorso, qualche volta, a un frasario in mandarino che Martina portava sempre con sé. Insieme siamo andati a vedere la Grande Muraglia, un’opera incredibile, una costruzione maestosa, adagiata lungo i monti, che sbalordiva per la veduta panoramica, ma ancor più per l’idea che percorresse tutti i confini dell’antica Cina, per più di 6000 chilometri: un cammino ostico di salite, discese, scale, pietre, rovine, che noi abbiamo percorso per una decina di chilometri, e che sono riuscito ad affrontare interamente, con malcelato orgoglio, portando ai piedi le stesse inseparabili ciabatte infradito che già avevano camminato altre meraviglie in Brasile, Argentina, India, e che adesso potevano vantare un nuovo prestigioso cammino. In virtù di questo affetto consolidato, e della gratitudine che provavo nei loro confronti, ho risparmiato alle suole, e anche a me stesso, l’ulteriore lungo tragitto per scendere fino alla strada principale, dov’era la fermata dell’autobus: per arrivare giù c’era a disposizione una soluzione molto più rapida. S’indossava un’imbracatura, ci si agganciava a una lunga fune tesa tirata a mezz’aria sopra il fiume, tra le due pareti della montagna, e in pochi istanti si arrivava di sotto, dopo aver vissuto l’emozione della sospensione e goduto del delizioso panorama. Più tardi ho scoperto che in quel preciso momento, senza saperlo, stavo facendo del “tarzaning”, perché nessuna cosa al mondo riesce più a salvarsi da una definizione, ogni attività deve essere rigorosamente classificata, e deve avere un nome che finisca invariabilmente per “ing”: a questa, purtroppo per lei, era capitato uno dei più ridicoli.
Per il resto, in città, c’era da gustarsi la Pechino delle piccole cose, delle viuzze anonime, degli originali stili architettonici, dei negozi di cianfrusaglie, e degli ottimi ristorantini dove le cameriere (perché quasi sempre erano donne) si misuravano in spassosi e ingarbugliati tentativi di tradurre i menu. C’erano anche altre cose da ammirare, come la qualità dei servizi pubblici, che in alcuni casi sorprendevano per la loro efficienza: autobus e metropolitana passavano con buona frequenza, telefonare in tutta l’area urbana non costava nulla, come anche i collegamenti ad Internet, e soprattutto c’era da elogiare la capillare diffusione dei bagni pubblici, che stavano quasi a ogni angolo di strada, anche se raramente si facevano apprezzare per la pulizia, anzi, qualcuno in ostello affermava che entrare in un bagno pubblico cinese fosse in natura l’esperienza più vicina al fumo dell’oppio, e qualche volta non aveva tutti i torti, ma almeno ce n’erano in abbondanza, ed erano gratuiti.