Tra le cose che più impressionavano, poi, c’era la gran partecipazione con cui la gente si dedicava alle attività all’aperto: ogni mattina, infatti, a cominciare dalle prime ore dell’alba, i parchi si riempivano di zelanti gruppetti intenti a praticare ogni genere d’esercizio, dal popolarissimo Tai Chi, alle più semplici ginnastiche arricchite con eleganti evoluzioni d’oggetti come ventagli, racchette e stoffe colorate, agli allenamenti su attrezzature da palestra, a coreografie di gruppo danzate a ritmo di musica, passando per le esercitazioni dei cori, per gli sfoggi di tecnica dei musicisti, fino ad arrivare alle tante comitive che s’incontravano lì per una partita a carte, per giocare a domino, o solo per chiacchierare. Tutto il parco diventava una grande frenesia di operosità, di musiche, di balli, di esercizi, di attività sportive, tutte in compagnia, tra consolidate consuetudini di gruppo che coinvolgevano gente di tutte le età, dai ragazzini agli straordinari e numerosissimi nonnetti, molti dei quali esibivano un’invidiabile forma fisica. In un piccolo parco, dove gli avventori si dividevano tra la ginnastica, i tavoli da ping-pong, e la passione oramai senza più confini geografici di tirare qualche calcio a un pallone, m’ero seduto a osservare questo tumulto di attività, finché qualcuno, dal gruppetto di maldestri calciatori, si è avvicinato per chiedermi di dove fossi. Entusiasti di avere un ospite italiano, per di più nobilitato dalla recentissima conquista della coppa del mondo, mi hanno immediatamente invitato a fare un tiro in porta, e consapevole delle loro aspettative per le mie doti tecniche, ho cercato di non demeritare: un destro morbido, e il pallone piazzato nell’angolino alto a fil di palo, o giù di lì, giacché la porta, anziché dai pali, era segnata con dei sassi alle due estremità. Lo stile era quasi impeccabile, almeno ai loro occhi, il tiro vagamente fiacco, ma con un portiere tutt’altro che irresistibile ho tenuto alto l’orgoglio nazionale, facendo un figurone e meritandomi fior di complimenti per il goal.
Ho preso una bicicletta a noleggio per fare un giro nel centro di Beijing: nonostante qualche disagio dovuto ai preparativi per le imminenti Olimpiadi del 2008, che avevano trasformato buona parte del centro in un enorme cantiere a cielo aperto, restava una città eccezionale da gustarsi in bicicletta, perché era attrezzata in modo eccellente con le corsie ciclabili, perché era tutta in piano, e soprattutto perché era smisurata, bellissima da vedere, e in bici si poteva passare la giornata a perdersi piacevolmente nei quartieri più caratteristici. Ho costeggiato Piazza Tienanmen, una superficie sterminata ancor più estesa della Piazza Rossa di Mosca, fino al mausoleo di Mao, dove ogni giorno si ricomponeva il solito macabro pellegrinaggio dei visitatori che sfilavano per vederne la salma imbalsamata, poi mi sono infilato tra i vicoli, vicino alla Città Proibita, e alla fine, entrando in un parco, mi sono fermato sulla sponda di un laghetto. Mi sono trattenuto lì, prima a godermi la vista e a fare il tifo per qualche pescatore, e in seguito, assieme a un gruppo di cinesi, cimentandomi in un gioco popolarissimo da quelle parti: un cerchietto di gomma attaccato a tre piume legate tra loro, che sale in aria come un volano e si palleggia con i piedi come un pallone. Qui il mio tasso tecnico di palleggiatore subiva la maggior destrezza dei più esperti cinesi, ma gli errori mi sono stati perdonati, e il gioco è stato assolutamente divertente.
Al ritorno, per sapere l’ora e la via più breve per rincasare, gesticolando come d’abitudine, ho chiesto informazioni a due ragazzi fermi all’angolo di una strada: erano due sordomuti, che anche tra loro conversavano a gesti. Non c’era nulla di particolarmente sorprendente, però mi ha colpito la naturalezza con cui ci siamo rapportati, e riflettevo sul fatto che probabilmente erano gli unici per i quali parlare con me o con un altro cinese era la stessa identica cosa, e anche da parte mia, mentre in Italia parlare con un sordomuto avrebbe potuto crearmi qualche imbarazzo in più nella comprensione, con loro, abituati a dialogare con i segni, avevo l’impressione d’intendermi con maggior disinvoltura. In generale, però, i cinesi continuavano ad apparirmi piuttosto freddi e distaccati, a volte peggio, sembravano terribilmente burberi e scontrosi; molti lo erano davvero, ma non era sempre così, certe volte quell’aspetto era solo un loro modo di essere, un atteggiamento, benché irritante, tanto istintivo quanto ingannevole, che in fondo non voleva esprimere nessun’ostilità. Dopo aver capito questo, ho cominciato a sentirmi più a mio agio, probabilmente anche a essere più espansivo, certamente più aperto, e da lì ho iniziato a notare molta più gente che mi sorrideva. Il seguito è stato un sensibile e progressivo crescendo, fino ad avere la sensazione d’essere addirittura coccolato: certe volte negli autobus, quando chiedevo qualcosa, si scatenava un intenso traffico di foglietti, con parole in inglese e traduzioni in mandarino, che i passeggeri si passavano per fornirmi le giuste indicazioni; in molti davano una mano come potevano, e l’esempio più inatteso ed eclatante l’ha dispensato un autista, che dopo aver capito, a fatica, la mia destinazione, prima mi ha indicato il nuovo autobus da prendere, che ci stava davanti, e poi s’è messo a correre come un pazzo per rubargli il tempo in mezzo al traffico, superarlo, e lasciarmi alla fermata successiva con un vantaggio sufficiente perché non rischiassi di perderlo.
Generalmente i cinesi erano brava gente, me ne convincevo sempre di più, l’unica categoria che proprio non sopportavo, tra i cinesi, erano i turisti: i turisti cinesi sono una calamità. Giravano a frotte, sempre rigorosamente in gruppo, con la guida in bella vista, avanti a tutti, a fare da apripista con tanto di bandierina colorata, e tutti gli altri dietro, ordinatamente, orde spaventose di piccole creature demoniache dagli occhi a mandorla che posavano davanti agli obiettivi con un sorriso demente e le dita a “V” in segno di vittoria, ripresi da aspiranti documentaristi, tutti ugualmente appassionati ma non tutti ugualmente competenti; non pochi di questi filmavano con le dita sopra l’obiettivo, o fotografavano con la macchinetta al contrario, regalandosi un bel primo piano del proprio naso: in sintesi, erano peggio dei tanto rinomati, e bistrattati, turisti giapponesi. Macchinette e pose statuarie s’incrociavano ovunque, ed era impossibile sfuggire a tutte le foto che imperversavano: bisognava fermarsi ogni due passi ad aspettare lo scatto, o si dovevano affrontare improbabili percorsi alternativi per aggirare gli ostacoli, e probabilmente, nonostante la mia buona volontà, già solo nei pochi luoghi che avevo potuto visitare in quei giorni, devo aver lasciato impressa su qualche centinaio di foto la rotonda immagine del mio bel facciotto, che un sacco di cinesi, loro malgrado, si saranno dovuti sorbire.
Con i treni cinesi, al pari dei trasporti pubblici locali, si viaggiava bene, sembravano frequenti, comodi e ben organizzati; il problema, forse l’unico ma decisamente poco trascurabile, era che in ciascuna città si potevano acquistare esclusivamente i biglietti per treni in partenza da quella medesima località, cosa che rendeva il viaggio particolarmente complicato: non era possibile pianificare nessun itinerario, il che concettualmente poteva anche sposare al meglio i miei stessi propositi, ma trovandoci in alta stagione, e con la consapevolezza che i cinesi erano piuttosto numerosi e che non sempre era facile trovare posto sui treni, sarei stato più tranquillo se avessi potuto prenotare almeno le ultime tappe, per essere sicuro di tornare a Shanghai in tempo per il volo di ritorno. L’alternativa pullman, invece, non era nemmeno da prendere in considerazione: era sconsigliata da tutti, anche dagli stessi cinesi, per il sovraccarico di lavoro cui erano sottoposti gli autisti, che causava frequenti colpi di sonno e un elevato numero d’incidenti.
Questo piccolo inconveniente ha condizionato sensibilmente i miei programmi, costringendomi a evitare i piccoli centri, dove il traffico ferroviario meno intenso poteva mettere a rischio la disponibilità dei biglietti, e a ridurre le soste, cominciando, seppur a malincuore, col sacrificare la tappa successiva: un’invitante località dalla suggestiva atmosfera tradizionale di cui mi avevano parlato molto bene, che avrebbe spezzato il lungo viaggio fino a Xi’an. Perlomeno avevo trovato posto in vagone letto, ed era una fortuna poiché, vista la situazione, anche per la scelta dei posti non avevo molto da sottilizzare, dovevo accontentarmi di quello che mi capitava. Quando è stato il tempo di ripartire, lasciare Beijing, in cui ormai mi ero ambientato molto più che nella fredda Shanghai, è stato difficile; lasciare Martina, che mi aveva accompagnato alla stazione per salutarmi, lo è stato ancora di più.
Sul treno i cinesi si mettevano comodi, a loro agio, e quelli possono essere tra i momenti più duri di un viaggio in Cina: per sentirsi in libertà, senza preoccuparsi troppo della nostra ipocrita sobrietà da galateo, molti di loro facevano tutto quello che gli veniva, dai comportamenti poco decorosi ma in fondo veniali e inoffensivi, come masticare con la bocca aperta o mettersi le dita nel naso, fino a manifestazioni più colorite e faticosamente sopportabili come togliersi le scarpe, ruttare, scatarrare fragorosamente e scoreggiare con disinvoltura. Superati alcuni di questi sofferti momenti dal tenore ai limiti dello scabroso, e dopo il viaggio che, per il resto, era stato sufficientemente tranquillo, sono uscito di buon mattino dalla stazione di Xi’an. In Cina le stazioni funzionavano come gli aeroporti, arrivi e partenze erano due settori divisi e non comunicanti, c’era un controllo a ogni ingresso, ed entravano in stazione soltanto i titolari del biglietto; ciò implicava che fuori, all’uscita, si creassero nutriti cumuli di gente in attesa dei passeggeri giunti a destinazione, con un delirio di amici e parenti urlanti, oltre a quello dei vari incaricati di agenzie e alberghi che sgomitavano cercando di guadagnarsi la prima fila, e che, appena conquistata la posizione, alzavano i loro cartelli per farsi riconoscere, o semplicemente conoscere. A Xi’an, in particolare, vista l’importanza del posto, la sua vocazione turistica e la quantità di gente che transitava per la stazione, quest’aspetto è stato piuttosto impressionante, e a giudicare dalla folla che ho trovato, tutti accalcati a vedersi scorrere davanti il corteo dei ciondolanti e assonnati nuovi ospiti, sembrava davvero di uscire dallo scalo internazionale di un aeroporto nell’ora di punta.