Sono arrivato in ostello in tempo per sistemare le mie cose, e per andare subito a visitare la famigerata attrazione di quella località: l’antico e straordinario esercito di terracotta. Originariamente doveva essere una scenografia a dir poco imponente, una sfilza di migliaia di guerrieri in terracotta a grandezza naturale, ciascuno diverso dall’altro, con tanto di cavalli, carri, con armi originali in legno e bronzo, tutti disposti in uno schieramento monumentale. Il colpo d’occhio in realtà era ancora di grand’effetto, tuttavia gli scavi non erano ancora terminati, buona parte delle statue erano andate distrutte, e la posizione defilata da cui si vedeva lo scavo, una piattaforma rialzata con una balaustra che si affacciava tutt’intorno sull’estesa composizione, rendeva forse l’impatto emotivo meno veemente: era, peraltro, esattamente la stessa angolazione e la stessa vista panoramica da cui erano state scattate tutte le classicissime foto che mostravano la parte meglio conservata di quell’opera mastodontica. Per apprezzarne i particolari, c’era qualche statua anche al livello superiore, nelle vetrine, ma l’effetto che il sito archeologico regalava appariva molto meno suggestivo di quanto mi fossi aspettato, senza nulla togliere alla straordinarietà dell’opera. Anche qui, intanto, si confermava il flusso infinito di turisti cinesi, e probabilmente anche questo contribuiva a rendere meno avvincente la mia escursione; la scena era sempre la stessa: davanti una bandierina triangolare tenuta in evidenza del cicerone di turno, e dietro una processione più o meno ordinata di flash, segni di vittoria, e di ombrelli, che le donne usavano per proteggersi dal sole. Il sole, per le donne cinesi, era peggio della cellulite per le occidentali: una calamità! Per i loro canoni di bellezza, la carnagione della donna doveva essere chiarissima, candida ai limiti del pallore, e per coprirsi dal sole usavano qualsiasi artificio: vestiti castigatissimi, mantelli che avvolgevano spalle e braccia, ombrellini a volontà, e spesso anche una specie di visiera scura, di plastica, che copriva tutta la faccia, portata con disinvoltura ma che esteticamente lasciava alquanto a desiderare, più che signore a passeggio le facevano somigliare ai nostri agenti della celere in tenuta antisommossa.
La città di Xi’an era meno bella di come me l’avevano descritta, ma ci si stava volentieri; anche in ostello la compagnia era ottima, e la sera sono andato a cenare insieme a Maarten, un ragazzo di Amsterdam. Con le bacchette avevo ormai fatto grandi progressi, e ne ho potuto beneficiare con il pesce alla griglia che abbiamo ordinato, che sono orgogliosamente riuscito a terminare lasciando nel piatto solo la lisca ripulita a puntino: una prova da maestro! Più tardi, in ostello, abbiamo conosciuto una giapponesina con cui siamo rimasti a chiacchierare fin quasi allo sfinimento, era partita da casa appena dieci giorni prima con l’intento di farsi un intero anno in viaggio, era una ragazza piacevole, e con lei ho passato anche tutto il giorno seguente.
Nel frattempo con i cinesi proseguiva un rapporto per molti versi conflittuale: da una parte ero oggetto di tanti amabili slanci di disponibilità, anche inaspettati, come l’esempio di un signore che vedendomi in difficoltà con l’autista di un autobus, perché m’ero ritrovato senza spicci, mi aveva gentilissimamente pagato il biglietto, o quello di tanta gente disposta ad accompagnarmi in giro per mettere a disposizione qualche parola d’inglese che conosceva; in altre occasioni, però, questi gesti si alternavano all’intrattabilità, più o meno ostile, di tutti quelli che ti liquidavano con un fare infastidito e scortese, il tutto sotto una cappa di caldo umido che contribuiva a rendere ogni cosa un po’ meno sopportabile. L’unica certezza che avevo acquisito era d’essermi ormai ambientato, rapidamente e con estrema facilità, un traguardo che in un paese come la Cina riusciva quasi a sbalordire anche me: a parte i loro occhi a mandorla e la lingua incomprensibile, anche tra i cinesi mi sembrava di stare con la gente di sempre, mi sentivo praticamente a casa. Questo sostanzialmente poteva voler dire due cose: o il livello abituale delle mie relazioni era così catastrofico che anche in Italia nessuno riusciva mai a capire nulla di quello che dicevo, nel qual caso avrei avuto di che preoccuparmi, oppure, per volerne cogliere la lettura positiva, stavo davvero cominciando a diventare un cittadino del mondo, a sentirmi a casa sempre, con chiunque e in qualunque posto. Ho preferito di gran lunga la seconda lettura, che per me era motivo di grande entusiasmo e soddisfazione.
Alle prese con la scelta della nuova destinazione, e con il solito spinoso problema dei treni, non trovando mete particolarmente attraenti a breve distanza, ho pensato di avvantaggiarmi un po’, puntando direttamente sulla turistica e rinomata Guilin, viaggiando per due notti consecutive e sostando il giorno, da qualche parte, a fare spensieratamente il turista senza dovermi preoccupare di trovare un ostello. Anche così, però, qualsiasi programma restava solo un’ipotesi, e la valutazione della tappa intermedia si rivelava tutt’altro che banale: il biglietto per la seconda tratta, quella fino a Guilin, potevo farlo solamente all’arrivo nella stazione successiva, e perciò, se poi da lì non avessi trovato posto, rischiavo di dovermi trattenere in qualche località anonima scelta unicamente per spezzare la monotonia di un lungo viaggio. Ho deciso di spingermi fino a Chengdu, ho acquistato il biglietto e mi sono rimesso in marcia per la prima notte in treno: niente cuccette disponibili, niente vagoni letto, soltanto un posto a sedere, per un viaggio di oltre sedici ore. Alla stazione, come di consueto, c’erano file interminabili, e a volte anche inspiegabili; certe volte veniva da pensare che i cinesi ci provassero gusto a farle, sembrava fosse un’autentica passione: anche sulla banchina, in attesa del treno, si sistemavano tutti diligentemente in fila per uno, immobili e pazienti, con le code distanziate a intervalli regolari, salvo poi rimischiarsi tutti quanti e sgomitare per passare avanti agli altri all’arrivo del treno, che ovviamente non si fermava mai con le porte davanti al primo della fila.
Il vagone dei posti a sedere si mostrava ben diverso dal più signorile vagone letto, o forse quel treno era particolarmente malmesso: le condizioni erano quasi sullo stile indiano, con finestrini aperti e ventilatori piantati sul soffitto, neanche molti, per la verità. Il treno era sovraffollato, oltre ai posti assegnati c’era altrettanta gente in piedi, o forse più del doppio, tutti appiccicati gli uni agli altri, sudati; la temperatura, già alta all’esterno, lì dentro arrivava alle stelle. Era impossibile muoversi, andare da una parte all’altra del vagone era un’utopia, mi preoccupavo di come avrei potuto raggiungere il bagno, qualora ne avessi avuto bisogno, e soprattutto, con tutta quella gente e un tragitto così lungo, mi chiedevo in quali condizioni avrei potuto trovarlo, ma poi cercavo di pensare ad altro, tanto era inutile porsi in anticipo un problema che non potevo risolvere. Più che una circostanza di viaggio sembravano scene di deportazione, gente accalcata, duemila gradi, io non avevo nemmeno niente da mangiare, e da bere, con quel caldo, solo un litro d’acqua. I bagagli pesavano sui portapacchi straripanti, intanto i passeggeri si stavano più o meno sistemando ovunque trovassero un angolo di posto, più di qualcuno si era addirittura sdraiato sotto i sedili, in terra. Chi ha potuto ha cominciato a mangiucchiare, tirando fuori schifezze confezionate d’ogni genere, gettando poi tutto, scatole, buste e bottiglie, fuori dal finestrino. C’erano sedici interminabili ore da passare immobili, incastrati tra i corpi, si cercava di dormire per far passare prima il tempo, ma su sedili così rigidi e scomodi era davvero un’impresa ambiziosa; per di più non c’erano i braccioli, e ogni volta che il vicino s’addormentava, dopo aver dondolato un po’, ti ricadeva inevitabilmente sulla spalla. Per fortuna il mio viaggiava insieme alla sua ragazza, che è rimasta tutta la notte vigile a controllarlo, e ogni volta che lui mi si stendeva addosso, lei lo recuperava, tirandolo a sé. In qualche modo sono riuscito anche a sonnecchiare, a tratti, sebbene ogni tanto, sentendo le gambe intorpidite, fossi costretto a svegliarmi per cambiare posizione, o, meglio, con l’intenzione di farlo, per poi rassegnarmi all’idea di non avere nessuna posizione alternativa.
Appena sceso dal treno, tutto indolenzito e con i piedi gonfi, sono corso a cercare il nuovo biglietto, sperando di trovarne uno per lo stesso giorno; lì ho scoperto che per raggiungere Guilin ci sarebbe voluto ben più di quanto avessi considerato, ma almeno in parte la fortuna mi aveva assistito, conservandomi un posto libero in un vagone letto per Guiyang: altre diciassette ore. Avevo non più di quattro ore per dare un’occhiata alla città di Chengdu, senza indugiare oltre ho preso un autobus per il centro e sono sceso vicino alla colossale statua di Mao, che dominava gli ampi spazi della piazza principale, resa però inaccessibile dai lavori in corso: ho deviato allora tra le vie commerciali d’intorno, girando poi nei vicoli sempre più defilati, tra i banchi del mercato, e infine alla ricerca di un posto per rifocillarmi. Per mangiare, come di norma, c’era molta scelta, tanti locali d’ogni genere e categoria, l’unico problema era capire quello che si andava a ordinare. Qualcuno aveva il menu in inglese, e i più organizzati avevano anche messo le foto di tutte le portate, concettualmente una gran comodità ma qualche volta non bastava neppure quello: tipicamente venivano serviti degli enormi piattoni in cui c’era un po’ di tutto, anzi c’era talmente tanta roba che le descrizioni assumevano le sembianze di poemi di cui non sempre riuscivo a capire il significato, e le foto risultavano spesso delle ricche e colorate composizioni artistiche, esteticamente inappuntabili ma di scarsissimo aiuto per l’ordinazione, così finivo spesso per sceglierne uno qualsiasi, a caso, confidando nella sorte. Alla fine però, qualsiasi cosa prendessi, ne ero quasi sempre soddisfatto: in realtà era difficile rimanerne delusi, la cucina cinese era ottima, il gusto prelibato, ed era anche molto varia, l’unico appunto che le si poteva fare è che il fisico dei cinesi non sembrava assorbirla tanto bene, o almeno così veniva da pensare giudicando dagli aliti mediamente pesanti come macigni, e dalle evidentemente diffuse disfunzioni di stomaco, che si manifestavano nelle continue, spavalde e rumorose flatulenze.