Subito dopo sono tornato verso la stazione, per non rischiare di perdere il treno, ma devo dire che il tempo passato lì sembrava già più che sufficiente, un po’ perché la città non appariva particolarmente bella, e un po’ anche perché cominciavo a essere stanco di girare con lo zaino sulle spalle, e mi pareva d’aver camminato già abbastanza. In piedi proprio di fronte a me, sull’autobus, c’era una ragazza molto carina, con un viso grazioso da bambolina: mi ero incantato a guardarla ma lei, come accadeva di solito, pareva non accorgersene nemmeno; poi si è liberato un posto, che le ho cavallerescamente ceduto, e lei mi ha ringraziato sorridendomi con tenerezza. Appena seduta, però, di nuovo s’è girata altrove, riprendendo l’espressione imperscrutabile senza rivolgermi più lo sguardo: di questo sono sicurissimo perché da quel momento, ancor più che prima, ho idea di non averle più tolto gli occhi di dosso. Arrivati al capolinea m’è passata avanti, inaspettatamente ha cercato il mio sguardo e mi ha sorriso di nuovo, per poi fermarsi appena fuori dell’autobus ad aspettare che scendessi anch’io, per salutarmi. Era così raro che una ragazza cinese mostrasse una qualsiasi reazione, era la prima volta che mi capitava, di solito non lasciavano trasparire la più vaga espressione d’intesa, di complicità, mai un segnale d’interesse, seppur così innocente come quel limpido e genuino sorriso di simpatia. Mantenevano sempre un atteggiamento distante e riservato, rinchiuso nel loro rigoroso contegno, e anche quella stessa ragazza, che sembrava tanto avesse voglia di parlarmi, sull’autobus non ne aveva tradito la minima intenzione per tutto il tragitto. Purtroppo il treno mi aspettava, lei andava dalla parte opposta, e a malincuore ho dovuto salutarla e rinunciare ad accompagnarla, ovunque andasse, anche se in quel momento ero quasi in bilico per cambiare idea, forse le sarebbe bastato solo un altro suo sorriso…
Ancora una volta il quadro che scorreva ai lati del treno era piuttosto piatto, in tutti i sensi. Finora non avevo potuto vedere molto, buona parte dei viaggi li avevo fatti di notte, ma ogni volta che mi era capitato di guardare fuori con la luce, il monotono scenario era sempre lo stesso, pianure, coltivazioni e costruzioni a perdita d’occhio: tutta la Cina, da Shanghai a Beijing, da Xi’an a Chengdu, sembrava essere un’unica invariabile distesa di migliaia di chilometri, un noioso e ripetitivo susseguirsi di campi coltivati e di cemento, di certo non un granché come visuale.
Poche ore di sosta, e poi l’ultima tappa, la terza consecutiva da più di sedici ore, nonostante la mappa e le note della guida indicassero per quest’ultima una distanza molto più breve. Per la prima volta, però, attraversavamo un tratto di montagna, dove il solito corteo ininterrotto di case lasciava spazio a zone boscose e a piccoli villaggi che sapevano di tradizione e d’intimità: per tutto il lungo tragitto si poteva gustare l’inedita armonia dei nuovi colori, il frenetico viavai degli abitanti dediti alle proprie attività, i somari che portavano il loro caric, ed entravano in stazione o lungo sentieri impraticabili, i buoi al lavoro, e i contadini che camminavano per i campi con i loro grandi e inconfondibili cappelli di paglia intrecciata a forma di cono. C’era tanta Cina rurale fatta di queste immagini, d’intensa vita agricola, e di terre coltivate conquistate alle pendenze della collina, su campi a terrazza così caratteristici da esser diventati una delle attrazioni più visitate nei dintorni di Guilin. Più avanti, il paesaggio si faceva progressivamente più selvatico, sopraggiungevano fiumi, nuovi alberi, e per un tratto s’arricchiva di una vegetazione più serrata, dal sapore esotico di giungla; poi ancora su, dove il treno continuava a risalire lentamente il suo immutabile percorso ferrato, la roccia tornava a rubare la terra ai boschi, i contorni delle colline si facevano più nitidi, più marcati, tra imponenti torri di pietra che spiccavano prepotentemente con le loro forme alte e affusolate, come tanti paletti piantati su un manto verde, di un bel verde campagnolo, e come se avessero in testa una corona, quei grandi coni di roccia con il picco frastagliato regnavano indiscussi su laghi e distese d’erba, dove tutto era morbido, tutto infondeva sensazioni di pace e serenità.
Quel cammino mi entusiasmava sempre di più, mi stavo convincendo che davvero n’era valsa la pena, e che potevo smettere di rammaricarmi di non aver preso l’aereo, perché nel frattempo avevo scoperto che c’era un volo diretto, da Xi’an a Guilin, che mi avrebbe portato a destinazione con un paio di giorni d’anticipo, tra l’altro a un prezzo simile a quello che avevo pagato per tutti quei viaggi in treno. Di solito, per distanze ragionevoli, preferivo evitare l’aereo: si passava da una città all’altra senza vedere cosa c’era nel mezzo, mentre su treni e autobus si potevano apprezzare visuali differenti, si scorrevano territori che difficilmente avrei avuto occasione di rivedere, se si andava di notte, con un po’ di fortuna si poteva comunque ammirare un bel tramonto, o lo scenografico chiarore dell’alba, e spesso mi ritrovavo a chiacchierare con la gente del posto molto più di quanto non capitasse in aereo. Questa volta, però, avevo cominciato a credere che fosse uno sbaglio, il viaggio pareva rivelarsi ben più lungo e noioso del previsto, almeno fino a quell’ultima tratta, poi non più, poi invece ho avuto buoni motivi per ricredermi.
Anche la compagnia, su quel treno, era senz’altro migliore che nei precedenti: nel mio scompartimento c’era un cinese che, sebbene non capissi come pure mi accadeva con tutti gli altri, perlomeno tentava di comunicare, anziché restarsene indifferente e distaccato come se nemmeno s’accorgesse di non esser solo. C’era anche un altro ragazzo, con cui mi sono ritrovato a fumare tra un vagone e l’altro, che sembrava avesse una gran voglia di dirmi qualcosa, ma lui non lo capivo neppure a gesti; alla fine mi ha chiesto di aspettarlo lì, ed è tornato, subito dopo, con in mano un pacchetto di sigari cinesi, che ha voluto regalarmi in segno di ospitalità. Poi c’era la bella cinesina che lavorava sul treno, e anche lei, molto più che le sue colleghe sugli altri treni, era sorprendentemente espansiva, ogni volta che passava dalle mie parti mi riservava sorrisi e frasi incomprensibili, ma dal suono dolce e intrigante, che contribuivano a rendere ancora più piacevole e avvincente il mio viaggio.
Il giorno era trascorso rapido, avevo potuto posare gli occhi su un nuovo angolo di mondo, a migliaia di chilometri dal mio, che mi aveva sorpreso e conquistato, poi però, venuta sera, su quell’angolo di mondo s’è spenta improvvisamente la luce, fuori è diventato tutto nero, e allora sono andato a coricarmi. Mancavano solo poche ore alla stazione di Guilin, dove finalmente avrei potuto cercare un alloggio degno di tale nome.
Dopo aver atteso l’alba in stazione, e dopo aver trovato, non senza fatica, un autobus per il centro, l’accoglienza che ho ricevuto non è stata delle migliori: mi ero beatamente accomodato sul mio sedile, come sempre in ciabatte, quando un bambino ha pensato bene di pisciarmi sopra un piede. Va chiarito che in Cina i bambini non erano soliti usare il pannolone, ma gli facevano indossare dei pantaloni con lo spacco, pronti per qualsiasi evenienza: una pratica e originale apertura che partiva dal sedere e arrivava fino alla pancia, per fare i bisogni in libertà. Dicono che la pipì dei bambini sia pipì santa… quella vescica miniaturizzata ha sputato fuori, dritto sul mio piede, un getto così vigoroso da far invidia alle più celebri fontane del centro di Roma.
Anche in quest’occasione, anziché la piccola località tra le montagne che pregustavo, ho trovato a Guilin la solita città strapopolata: ancora non volevo rassegnarmi all’evidenza che un piccolo puntino su una carta geografica, in Cina, non era un paesino sperduto dove chissà se c’era un posto per dormire, come mi ostinavo a pensare io ogni volta, ma più verosimilmente era una metropoli da oltre un milione di abitanti. In ogni caso, nonostante, come di consueto, le architetture fossero prevalentemente delle sfilze interminabili di orridi casermoni, la città godeva di bellezze naturalistiche intatte, anche perché, pur con tutta la buona volontà dei peggiori amministratori cinesi che la sorte potesse rifilare a quella zona, in un contesto paesaggistico impreziosito da pregevoli scenari di montagna, e attraversato da un’abbondanza di corsi d’acqua che s’intrecciavano dentro e fuori l’area urbana, era un ambiente oggettivamente difficile da rovinare.
Il rapporto con la gente procedeva sostanzialmente inalterato, esattamente com’era nelle altre città: i più scontrosi seguitavano a rispondere male, con atteggiamenti aggressivi apparentemente incomprensibili, alcuni gruppetti di cretini si divertivano con qualche presa in giro, e molti altri, invece, cercavano di aiutare come potevano, misurandosi, con alterne fortune, con le difficoltà della lingua. C’era anche un’altra categoria cospicuamente rappresentata: quelli che si prodigavano nello spillare qualche soldo dalle tasche dei facoltosi stranieri di passaggio, meglio se soli, cercando di conquistarne la fiducia con un po’ di chiacchiere amichevoli, per poi proporgli di andare in giro per locali alla moda, ristoranti di lusso, o ancora in cerca di donne, droga, o qualsiasi altro genere di fantasia che potesse far meritare una sostanziosa commissione per il servizio. L’approccio, in questi casi, era così ripetitivo, così invariabilmente scontato, da far venire la nausea: erano tutti, o almeno dicevano d’esserlo, studenti universitari alle prese con i corsi d’inglese, con la smania di fare pratica e perfezionare la loro pronuncia approfittando della provvidenziale presenza di un occidentale, e con la scusa di voler conversare ti si appiccicavano addosso e non ti lasciavano più andare. Non era facile attribuire la giusta età ai cinesi, almeno a me continuava a rimanere difficile, ma alcuni di quelli erano così evidentemente oltre l’età degli studi, che se fosse stato vero ci sarebbero state da rivedere un bel po’ di cose nel loro sistema universitario.