Chi invece mostrava davvero interesse per praticare l’inglese erano i ragazzini: come gli altri, cercavano di attaccare bottone ogni volta che gli capitava sotto tiro uno straniero, ma il loro entusiasmo era reale, o magari, per i più giovani, era reale l’entusiasmo dei genitori, che spesso li spingevano a dire qualcosa per saggiare le capacità linguistiche dei piccoli studenti. La cosa curiosa, in questi casi, era la sequenza di domande, che era sistematicamente la stessa: «Come ti chiami? E da dove vieni? Dall’Italia? E che tempo fa in Italia?»
…Che tempo fa in Italia?!? Probabilmente il programma di studio era sempre lo stesso, ed erano arrivati tutti alla medesima pagina del libro di testo, perché altrimenti risultava alquanto singolare che in qualunque angolo della Cina avessero un così spiccato interesse per le condizioni climatiche italiane.
Passeggiando lungo le vie del centro ho fatto una scoperta, casuale, ma utile e importante: mi ero fermato in un grosso negozio d’elettronica, di quelli ipertecnologici stile centro commerciale, a comprare una schedina digitale per la macchina fotografica, malauguratamente, però, il prezzo esposto in vetrina era più di quanto avessi in tasca, così, al commesso che era venuto a servirmi, ho fatto il segno dei soldi, cercando di fargli capire che non li avevo e che sarei tornato dopo. Non mi ha dato tempo di spiegare, mi ha subito fatto un nuovo prezzo ribassandolo di un terzo. Gli ho mostrato i soldi che avevo, per fargli vedere che non raggiungevo nemmeno quella cifra, e il commesso, senza scomporsi, ha preso quello che c’era e mi ha impacchettato la scheda, con regolare ricevuta. Dopo mi è stato confermato da tutti quelli con cui ne parlavo: l’abitudine di mercanteggiare sui prezzi, in Cina, non valeva solo per le bancarelle e per i caotici negozietti delle maggiori vie commerciali, dove già avevo acquisito una buona dimestichezza, ma era una regola che si poteva attuare ovunque, anzi, come avevo già realizzato poco dopo, trovando la stessa identica scheda, in altri negozi, ai prezzi più disparati, contrattare era praticamente un dovere.
Il giorno dopo ho noleggiato una bicicletta per allontanarmi da quell’area cittadina dalla marcata inclinazione turistica, molto ben curata ma un po’ artefatta, e per seguire invece un invitante percorso tra i fiumi, sotto quegli enormi piloni di roccia coperti di verde che continuavano a dominare il panorama. La bici era un cesso, ma questa non è stata una grossa sorpresa: avevo già provato una bicicletta cinese anni prima, a Cuba, quand’ero stato ospite di Vicente e Maribel. Ogni volta che uscivo con Vicente a fare un giro in bici, lui, considerando la mia provenienza, si rammaricava di non potermi offrire di meglio, e mi elencava tutte le più prestigiose marche italiane, impossibili da trovare a Cuba, che avrebbe sognato d’avere; come sempre, in quell’isola, ci si doveva accontentare di quello che c’era: le biciclette che Fidel faceva arrivare dall’alleata Cina, e che Vicente, per l’appunto, detestava.
Ho pedalato lungo il fiume per qualche chilometro, tra le montagne, fino a raggiungere l’ingresso di una grotta, un nuovo sito turistico a pagamento. Dalle foto esposte alle pareti sembrava interessante, ma soprattutto, con una temperatura che superava abbondantemente i trenta gradi, era l’unico posto fresco in cui rifugiarsi, così, senza indugio, ho deciso di entrare. Il costo del biglietto comprendeva anche l’accompagnamento della guida: una visita guidata… in cinese! In realtà la spiegazione in inglese era contemplata, tuttavia avrei dovuto aspettare lì fuori che si formasse un gruppo di stranieri, e io avevo troppo caldo e troppa poca pazienza per convincere me stesso a farlo.
Senza capire nulla delle didascalie verbali della guida, mi sono ugualmente goduto la grandiosità di quel luogo incantato, l’articolata varietà delle fattezze, il movimento nell’immobilità, la magia delle stalattiti che sembravano sfidare la gravità, che parevano potersi staccare da un momento all’altro e invece rimanevano lì in alto appese, a contemplare le stalagmiti salire, protese le une verso le altre, nell’eterna ricerca del fatidico abbraccio. Era una meraviglia, un’infinità di figure, di spazi celati negli anfratti, di forme che seguivano linee sempre nuove e differenti, disegnate dalla mano fantasiosa e imprevedibile della natura.
Poco prima di uscire ho avuto l’occasione di incrociare un gruppo di stranieri e mi sono immediatamente approssimato a loro, non reggevo alla curiosità di ascoltare dalla guida qualche commento in inglese, anche per rendermi conto di cosa mi fossi perso. Mi aspettavo un’approfondita dissertazione sui caratteri distintivi di quella grotta, con sapienti escursioni tematiche su ere geologiche, sulla conformazione del territorio, su classificazioni e proprietà strutturali dei differenti generi di roccia, sulle condizioni e gli avvenimenti che avevano potuto modellare ciascuna di quelle sagome, …e invece, il buon cicerone, stava solo indicando le figure più caratteristiche da guardare: da una parte c’era l’elefante, da un’altra il flauto, poi ancora la scimmia, e tanti altri oggetti e animali che davano il nome a ciascun angolo che veniva mostrato. Non avevo dubbi: nessun rammarico, era stato meglio avere il commento in cinese. Se la spiegazione doveva essere di quella natura, allora era stato meglio non capirci nulla, almeno in quelle forme avevo potuto vederci quello che mi pareva.
Ho trovato un posto al riparo dal sole, a due passi dall’uscita, dove mi sono seduto a scrivere, e subito si è avvicinato un uomo; era vestito con abiti semplici, portava una lunga veste tradizionale, di un giallo anch’esso caratteristico, ed esibiva un volto buono e rassicurante: sembrava uno di quei saggi cinesi che si vedono nei film, calmi, misurati nelle movenze, quasi flemmatici, pacati ai limiti dell’eccesso, ma con gli occhi vispi e sapienti. Si è seduto accanto a me, mi ha guardato con un misto di complicità e tenerezza, sorridendomi, poi ha guardato il taccuino che avevo in mano e l’ha preso, per scriverci un suo pensiero, forse una poesia, poche righe che recitavano più o meno in questo modo:
Lasci la tua casa per vivere libero,
parti, te ne vai lontano,
ma poi, un giorno, la libertà comincia a non bastare,
e nasce il desiderio di tornare indietro,
ciò che hai lasciato ti manca sempre di più.
Sei come un uccello che si ritrova a vivere
in uno splendido bosco incantato,
ma in solitudine,
e per quanto il bosco possa essere bello,
sente affiorare una nostalgia,
la nostalgia di casa.
Una ragazza si è unita a noi, per fare da interprete, così lui ha potuto raccontarmi qualcosa di sé: veniva dallo Yunnan, una regione spaccata tra le straordinarie bellezze naturalistiche e l’estrema povertà, ma aveva trascorso quasi tutta la sua vita dalle parti di Guilin, dov’era arrivato ancora giovanissimo. Era rimasto colpito nel vedermi lì da solo a scrivere, se ne congratulava, anche a lui piaceva scrivere, e aveva voluto lasciarmi una sua testimonianza; si rammaricava soltanto di non aver potuto studiare abbastanza da riuscire a comunicare con me, e di come ai suoi tempi a scuola, anziché l’inglese, gli avessero fatto studiare il russo. Non importava che ignorasse l’inglese, si faceva capire benissimo, e forse per la prima volta, dopo essermi sentito per giorni, ovunque, un estraneo, riuscivo a cogliere il calore della confidenza. Quell’incontro era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Intanto, a ogni pasto, proseguiva il mio perfezionamento nell’uso delle bacchette, con l’occasionale partecipazione di quanti si ritrovavano a mangiare nello stesso locale, i quali a volte, dopo aver ridacchiato un po’ tra loro, mi dispensavano qualche consiglio sulle tecniche più efficaci; in più, quando capitava che avessero ordinato qualcosa di particolare, alcuni mi offrivano anche un assaggio delle specialità che avevano in tavola, per farmi apprezzare al meglio il gusto della loro cucina. Dopo essermi rifocillato, e aver sostenuto l’ultima lezione per riuscire ad afferrare fino al più piccolo chicco di riso, sono salito di nuovo su un treno, per arrivare a Shenzhen, e poi da lì raggiungere Hong Kong, dove avevo già prenotato una stanza per la prima notte. Viaggiavo su una comoda cuccetta, dove si sarebbe potuto dormire benissimo, se non ci fosse stata un’orda scatenata di piccoli diavoletti cinesi di ritorno da una gita in montagna, che non hanno smesso di gridare un solo minuto per tutta la durata del tragitto. Era un vizio diffuso da quelle parti: molti cinesi urlavano, era più forte di loro, non riuscivano a parlare con un tono normale, e come ho avuto occasione di sperimentare personalmente sdraiato lì in cuccetta, mentre mi rigiravo nervosamente da una parte e dall’altra, anche i ragazzini non erano da meno.
Sono giunto a Hong Kong con l’irresistibile curiosità di vederla, per confrontarla con l’idea che me n’ero fatto dai racconti: da come mi era stata descritta non mi aspettavo certo un paradiso, e al primo impatto il mio giudizio è stato forse ancora più impietoso. La modernissima Hong Kong mi sembrava un posto invivibile: caos puro, una sequela impazzita di colate di cemento senza un contegno né una regola, luci e insegne colorate che si affacciavano da ogni lato su strade affollatissime, edifici iperpopolati, con sfilze interminabili di negozietti e una miriade di minuscoli ingressi di hotel e appartamenti, che nella quasi totalità dei casi erano poco più che loculi. Si aveva la sensazione che mancasse lo spazio vitale, quegli orrendi fabbricati senza grazia che spuntavano dappertutto riuscivano quasi a nascondere il cielo, sembravano un’inutile e irriverente sfida all’altezza, delle moderne torri di babele così opprimenti da togliere il fiato.
A caratterizzare la città con maggiore intensità, c’era poi la sua anima più nota e più palese, quella che si rispecchiava, superba e vanitosa, negli sconfinati interessi finanziari e commerciali, quella dalla spiccata vocazione avveniristica, impeccabile nei servizi, il crocevia internazionale di vite e d’opportunità, centro nevralgico del mondo asiatico, e paradiso dei manager orientali in carriera. Quell’anima aveva popolato Hong Kong di banche, di negozi alla moda, e di specialisti della cortesia e delle buone maniere, specialisti, però, non a tempo pieno: quando non serviva, quei sorrisi smaglianti, che sapevano tanto di marketing aziendale, si trasformavano nella peggior cafonaggine, più irascibili e intrattabili degli altri cinesi, che almeno avevano l’onestà intellettuale di mostrarsi burberi sempre, senza sorprese. Qui tutto sembrava finto, tutto studiato, e la produttiva metropoli si mostrava per quello che era: efficiente, nulla di più.