Appena fuori dal caos cittadino, però, si godeva di incantevoli scenari di mare, di verdi montagne, di adorabili baie lussureggianti, di straripante vegetazione tropicale; quella vista era prepotentemente diversa da qualsiasi cosa si potesse immaginare stando in centro città, sembrava che la natura volesse rivendicare la propria indiscutibile supremazia, e dov’era stata risparmiata dalla mano dell’uomo, pareva volersi mostrare più bella che mai. Un delizioso trenino a cremagliera che si arrampicava fino a un belvedere, da cui si poteva ammirare l’intero panorama che circondava l’isola di Hong Kong, era infatti tra i richiami turistici più in voga; dall’alto lo scenario non mancava d’impressionare: avvolti in quello sfondo verdeggiante, si dominava tutta la distesa di grattacieli piantati disordinatamente al suolo, e da quella posizione anche quell’accozzaglia di cemento si appropriava di un fascino inaspettato, soprattutto all’ora del tramonto. Nelle belle giornate, quando il sole s’andava a nascondere, privando il cielo del suo chiarore, sempre più flebile, la città cominciava ad accendersi di un’infinità di luci e di colori, così intensi da sembrare quasi studiati, progettati e sapientemente disposti da un’unica regia, abile e dal gusto raffinato. Appena, sopra, il buio arrivava a farsi completo, in basso la città già brillava di luci, ravvivate anche da quelle in movimento delle navi e dei traghetti, che partecipavano alla festa transitando nello stretto canale che separava l’isola dal resto della città.
Dal giorno dopo il mio arrivo, m’ero trasferito a dormire da Karin, un’amica conosciuta in Brasile, che aveva potuto ospitarmi nel prestigioso ed elegante albergo in cui lavorava. Con lei, nel suo tempo libero, andavamo a passeggiare per le zone circostanti, dove mi mostrava le attrazioni di maggior pregio, mentre la sera mi portava in giro per locali, a provare i cibi più caratteristici, e a vivere le singolari atmosfere del posto, i cui connotati più tipici erano rappresentati dalla gran varietà di gente e di culture che transitavano per le vie, e che rimodellavano con le loro influenze una città in perpetuo movimento. Era un turbinio di diversità al quale dovevano partecipare tutti, non ci si poteva sottrarre perché era l’essenza stessa di quel luogo, forse una delle poche vere società multirazziali e multiculturali che io avessi conosciuto, dove non era difficile che un italiano e una svizzera, com’era capitato a noi, si trovassero a cena con una sua cara amica di Hong Kong, l’unica di origini cinesi, più una ragazza giapponese e una di Singapore, altre due loro amiche che lavoravano in città. In fondo Hong Kong, nel bene e nel male, si poteva riassumere in una sola parola: una “moltitudine”, in tutte le possibili accezioni del termine.
L’ultimo giorno sono stato a visitare Macau, l’ex colonia portoghese, che della lunga dominazione lusitana conservava intatti i caratteri architettonici coloniali tra le viuzze del centro; appena fuori da lì, però, ci si trovava circondati da palazzoni di dubbio gusto, e da qualche grattacielo, che appariva come un tentativo malriuscito di scimmiottare la vicina Hong Kong. Nel complesso, il confronto tra le due località si rivelava alquanto penalizzante per Macau, con le sue molte aree visibilmente più povere e più trasandate, tuttavia l’amabile borgo antico, animato da un’intensa affluenza di visitatori, era assai ben curato e molto grazioso da vedere, seppur con tutti i limiti e le distorsioni dei centri storici così turistici che, inevitabilmente, finiscono per perdere gran parte del loro fascino con la scomparsa delle caratteristiche bottegucce delle origini, in favore dei più moderni e redditizi negozi d’abbigliamento, di lussuose gioiellerie, di ristoranti internazionali, e degli immancabili McDonald’s, o, come solitamente li chiamavo, i “cessi”. Solo per chiarire, il nomignolo citato non era dovuto a qualche forma d’irriverenza, ancorché forse nemmeno tanto illegittima, dettata da una crociata d’intransigenza puristico-alimentare nei confronti dei loro discutibili hamburgers, né era dovuto a un risentimento socio-politico rivolto a offendere uno dei simboli più emblematici del capitalismo imperialista, ma era proprio l’unico utilizzo che ero solito farne quand’ero in viaggio, e devo dire che per quell’aspetto si dimostravano quasi sempre impeccabili: pur offrendo una qualità più che criticabile per il cibo, generalmente la qualità dei loro bagni era invece l’ideale, spaziosi, curati, puliti, sempre al posto giusto, provvidenziali nel momento del bisogno, una vera e propria garanzia. In ogni grande città del mondo, per andare al bagno, non conoscevo luogo più comodo, meglio posizionato, e più facile da trovare dell’impareggiabile McDonald’s, e da sempre, quando mi trovavo in giro per il centro di qualche nuova città, magari di passaggio, tra un treno e l’altro, con lo zaino sulle spalle e senza un posto dove dormire, cercavo sistematicamente di tenere a mente tutti quelli che vedevo: «Toh, un altro bel bagno proprio lì, dietro l’angolo».
Prima di far ritorno a Shanghai, avevo deciso di passare un paio di giorni sul West Lake, il lago di Hangzhou, ma non c’erano treni diretti, e per arrivarci sarei dovuto andare comunque a Shanghai, a più di un giorno di distanza, per poi prendere un altro treno che mi portasse a destinazione; così, per una volta, mi sono convertito al viaggio in aereo, molto poco “on the road” ma senz’altro più tranquillo e riposante. Tranquilla e riposante si presentava pure Hangzhou, anche perché qualsiasi città sarebbe parsa tale dopo quattro giorni di Hong Kong. Era evidente la spiccata indole da località di villeggiatura, tuttavia era frequentata quasi esclusivamente da avventori cinesi: per strada, di occidentali, ne avevo incontrati davvero pochi, e la cosa non mi dispiaceva affatto, anche perché tutto ciò coincideva con un ambiente meno smaliziato, dove nessuno mi fermava per strada per offrire alloggi, ragazze, o abiti firmati a prezzi d’occasione.
A questo punto consideravo d’aver maturato un’idea sufficientemente chiara sui cinesi, e mi appariva ormai lampante quanto generalmente non fossero molto espansivi. Rispetto ad altri viaggi, erano rarissime le situazioni in cui qualcuno accennasse anche un solo piccolo slancio di confidenza, o prendesse l’iniziativa per scambiare due chiacchiere: al contrario, stavano piuttosto sulle loro, sempre molto frenati dal loro fare distaccato e austero. Nelle circostanze in cui capitava di doverci aver a che fare, però, una volta rotto il ghiaccio, molti si mostravano piacevoli e bendisposti, e un chiaro esempio è stato in occasione del mio rituale, irrinunciabile, taglio di capelli, in un locale in cui lavoravano tutti ragazzi molto giovani. Appena entrato, immediatamente mi hanno fatto accomodare, tutti scrupolosamente accorti nel mantenere una lucida e cortese formalità nei miei confronti, benché tra loro iniziassero subito a scambiarsi sorrisini di complicità. Nessuno dei ragazzi parlava inglese, e così, per chiedermi di dove fossi, hanno pensato di mostrarmi l’almanacco del mondiale di calcio appena terminato, con tutte le nazionali. Quando ho indicato l’Italia, il ragazzo che mi stava tagliando i capelli ha lasciato tutti gli attrezzi del mestiere, ha preso una penna, e ha cominciato a scrivere, di getto, tutti i risultati degli incontri che la nazionale italiana aveva disputato, enfatizzando il suo entusiasmo per i successi azzurri; da quel momento, il loro rigoroso distacco s’è istantaneamente e irreversibilmente sciolto, e alla fine erano tutti lì intorno, nessuno escluso, a partecipare alla solita allegra pantomima dello straniero che cerca di comunicare, tra la disperazione per le incomprensioni e le ovazioni per i vocaboli ripetuti a pappagallo. Sono uscito tra gli affettuosi saluti di tutti, soddisfatto del taglio, ma anche un po’ contrariato per le mie amnesie calcistiche: a parte l’esultanza per la vittoria, io già mi ricordavo poco o nulla della conquista della coppa, a malapena rammentavo i nomi delle altre nazionali che avevamo incontrato, mentre in Cina c’era chi sapeva tutti i risultati dell’Italia a memoria, e perfino i nomi dei marcatori.
Il centro abitato si estendeva ben oltre la riva del prezioso lago, che però costituiva l’attrazione più significativa della città, e stemperava l’atmosfera un po’ cupa che caratterizzava molte delle grandi metropoli cinesi, pur se le tonalità scure dell’acqua e del cielo, perennemente grigio, tendevano a soffocare la brillantezza dei colori. La sera, le vie che costeggiavano il lago si animavano di gente a passeggio, e tutto lo scenario acquisiva un nuovo fascino, del tutto differente ma altrettanto piacevole; per rendere omaggio alla folla, è anche andato in scena un lungo e pregevole intrattenimento di giochi d’acqua, di luci e di effetti sonori, con i poderosi getti che si alzavano dal pelo dell’acqua ad assecondare le note e danzare armoniosamente, illuminati da fasci di luci colorate che variavano anch’esse seguendo i ritmi e le melodie dei brani musicali. Uno spettacolo straordinario.
Lungo la strada per tornare in ostello c’era una gran quantità di bar, discoteche, spettacoli di musica dal vivo, qualche jazz club; in uno dei tanti locali che ho incrociato, ho intravisto un gruppo che suonava e mi sono deciso a entrare, anche se la scelta, purtroppo, è stata tutt’altro che fortunata: mi sono sorbito qualche pezzo di melenso pop cinese suonato, anche piuttosto male, da un gruppo di ragazzini che si atteggiava a boy band con sguardi ammiccanti e vezzi da star. Il tempo di una birra, e sono fuggito via, disgustato per i suoni, ma in fondo anche confortato, con la solida consapevolezza che per quanto uno possa essere privo di ogni talento, alla fine la vita ti regala sempre qualche opportunità: un ingaggio musicale in Cina, per esempio, non lo negavano a nessuno.
Il giorno appresso, con una bicicletta a noleggio, ho fatto tutto il giro del lago, pedalando tra famiglie a passeggio, ragazzi che giocavano, volenterosi ginnasti, tenere coppiette, speranzosi pescatori, combriccole di vecchietti appassionati dalle proprie chiacchiere, e tanti altri personaggi che gironzolavano attorno al fitto intreccio di ponticelli e di stradine che si diramava tra alberi, piante, fiori, panchine, e soffici prati. Più scoprivo nuovi angoli di quel piccolo paradiso di baie e isolotti, tra le siepi e le ninfee in cui spiccava la consueta impeccabile maestria cinese nella cura dei giardini dove ogni pietra, ogni pianta e ogni fiore erano sempre esattamente al loro posto, e più ne rimanevo stregato. Per qualche momento, poi, il cielo ha perso quel suo alone plumbeo che abitualmente perseguitava la città, ha irradiato tutta la sua luce, e i colori del lago e dei giardini hanno potuto creare un colpo d’occhio memorabile.