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Osservazioni Cinetiche

Ago, 2006 ~ Lascia un commento ~ Written by admin

Anche qui, in un periodo in cui tutta la Cina era particolarmente bersagliata da alluvioni e temporali, stavo inanellando un’altra prestigiosa vittoria sul maltempo: in tutto il viaggio avevo visto piovere solamente una volta a Beijing, dalla finestra di un bar in cui mi ero rifugiato, e un paio di altre volte dal treno; per il resto, mentre arrivavano puntualmente notizie di terribili temporali e inondazioni in molte delle località che avevo appena lasciato o che stavo per raggiungere, ero riuscito a godermi ovunque delle giornate di splendido sole. Nella stessa Hangzhou, solitamente soggetta a frequenti e improvvisi rovesci, me la sono cavata con solo qualche minaccia, con le nuvole che improvvisamente si facevano nere, gonfie, il vento che soffiava forte con rabbiose folate, un po’ di paura che si scatenasse l’acquazzone da un momento all’altro, e poi più nulla, tornava la calma, e io potevo continuare ad andarmene allegramente a zonzo per la città.

    Quando sono tornato a Shanghai, ormai alla fine del viaggio, avevo uno spirito totalmente differente, tanto da trovarla più vivibile di come non mi fosse sembrata nei miei primi giorni di Cina. Ho avuto il tempo e il giusto spirito per vedere le cose con maggior attenzione, e in fondo l’insieme non era poi così male: ho visitato con più calma il borgo antico, vicino alla celeberrima zona del Yu Garden ricostruita sullo stile tradizionale, poi l’elegante quartiere francese, e ancora i contrasti architettonici tra il Bund e Pudong, tra palazzi vittoriani e modernissimi grattacieli che sfilavano sulle due rive del fiume Huangpu.

Il resto del centro città era una sbalorditiva e smisurata area di commercio perpetuo: centri commerciali, mercati, bazar, uno sproposito di negozi, e per finire gli organizzatissimi “freelance” dell’offerta, gente che si vendeva le cose per conto proprio, in strada, in concorrenza con i commercianti locali. Con i cataloghi in mano, e una sfacciataggine sconfinata, si mettevano sulla soglia dei negozi a fermare tutti quelli che entravano, dicendo di non buttare i soldi lì dentro, perché loro avevano prezzi migliori e roba di qualità, e vendevano di tutto: orologi di marca, borse, scarpe, vestiti. Ovviamente era tutto rigorosamente copiato, in Cina falsificavano qualsiasi cosa: si diceva che da quelle parti era meglio non trattenersi troppo tempo nello stesso posto… si correva il rischio d’essere copiati!

Uno di questi promotori, un ragazzino, mi ha fermato mentre guardavo distrattamente la vetrina di un negozio, e non mi ha mollato più; aveva una gran parlantina, che soltanto la sua poca dimestichezza con la lingua inglese riusciva in parte a contenere: ripeteva continuamente, in ordine sparso, quei pochi vocaboli che conosceva, ed era insistente fino allo sfinimento, ma in modo simpatico, e alla fine, conquistato dal personaggio e spinto dalla curiosità di esplorare quel misterioso commercio parallelo, ho deciso di seguirlo. Siamo usciti per una via laterale, e ci siamo improvvisamente ritrovati in un mondo fuori dal mondo: a solo un centinaio di metri dalle sgargianti vetrine illuminate delle vie più eleganti e frequentate della città, si apriva un intero quartiere di case ammassate, di oscurità, di degrado. Ci siamo addentrati in un vicolo buio, tra gli sguardi immobili e penetranti della gente buttata ai lati della strada, poi in un piccolo cortile, poi le scale, fino ad arrivare all’ingresso di una casa, dov’era esposta la merce e dove avveniva la compravendita. Lì dentro ho trovato anche un gruppo di turisti spagnoli, una delle signore mi chiedeva cosa ci facessi lì da solo, mi ammoniva che la loro guida s’era raccomandata di fare attenzione a quelle zone, di andarci sempre in gruppo, e si complimentava con me per l’audacia; non glie l’ho detto, ma io pensavo la stessa cosa di loro, anche se giravano in gruppo: se fossi stato un rapinatore cinese, vedendo passare me, e poi loro, non avrei avuto dubbi su chi derubare.

Quella parte della città, e il contrasto con gli eccessi commerciali che si palesavano di nuovo appena svoltato l’angolo, davano da pensare: a Shanghai sembrava che tutto ormai fosse in vendita, ovunque c’erano pubblicità, luci, negozi, promozioni, era l’esaltazione dello shopping sfrenato, e forse Shanghai era solamente il segnale più visibile di un sistema molto più esteso, che coinvolgeva tutta la nazione. Ero andato in Cina con l’intento di vedere uno stato differente da tutti gli altri posti che conoscevo, perché c’era il comunismo, perché c’era una tradizione millenaria, e c’era stata una chiusura politica e culturale che, giusta o sbagliata che fosse, ne aveva mantenute intatte le diversità, ma che già negli ultimi anni, con le prime aperture al liberismo, si stava compromettendo, spingendo anche la Cina a essere inghiottita dalle fauci dei mercati globali, o i mercati globali a essere inghiottiti dall’esplosione della produzione cinese. Io, comunque, volevo andarci prima che quel processo rapido e irreversibile di occidentalizzazione, che già aveva avuto inizio, avanzasse troppo, prima che la Cina diventasse un’altra Cina. Su questo non davo giudizi, volevo unicamente assecondare una curiosità: a prescindere da come poi sarebbe diventata, se migliore o peggiore, a me importava che stesse cambiando, ed ero determinato a non perdere l’opportunità di conoscere qualcosa di singolare, di differente, che forse stava per scomparire. Dopo tre settimane, però, mi chiedevo dove fosse il comunismo. I cinesi si pagavano tutto, pagavano l’istruzione, l’assistenza sanitaria; alcuni poi vivevano nel lusso più sfrenato, mentre per altri le condizioni economiche erano tragiche, si lottava per la sopravvivenza, nelle città c’erano mendicanti che vivevano per strada. Mi chiedevo come potesse cambiare ancora un posto in cui già quasi non si vedevano le differenze con tutto il resto del mondo: la Cina che stavo scoprendo non poteva essere più uguale al suo futuro.

    L’ultimo giorno, proprio mentre rientravo in ostello, un tizio ha provato a chiedermi un’informazione in cinese, anche se stento a credere che mi avesse scambiato per un suo conterraneo; forse voleva soltanto gratificarmi un po’, avendo saputo della mia mania, in viaggio, di mischiarmi in qualche modo con la gente del posto, per illudermi d’integrarmi al meglio. In realtà, oltre all’aspetto fisico che seguitavo a dubitare fortemente che potesse trarre in inganno, mi rendevo conto che neanche emotivamente mi sentivo molto integrato, e soprattutto, a differenza delle altre volte, ero ormai arrivato alla vigilia della partenza senza nessun grande dispiacere, senza nessuna smania di restare: il viaggio era stato bello, ma poteva terminare lì, era durato quello che doveva durare. Certo, mi era capitato d’incontrare gente interessante negli ostelli, e spesso avevo trovato cinesi gentili che s’erano fatti apprezzare per la loro disponibilità: erano piccoli scambi che comunque volevano dire molto, sono le opportunità che ti permettono di ambientarti; dopo tre settimane, però, avevo bisogno di qualcosa in più. Ero partito da solo, come avevo già fatto tante altre volte, perché il viaggio mi potesse offrire le occasioni per comunicare di più e meglio, tuttavia i cinesi continuavano a mostrarsi poco comunicativi, raramente avevano quell’entusiasta inclinazione che al contrario, tanto per fare un esempio, avevano avuto con me gli indiani: anche lì, spesso, si era presentato il problema della lingua, eppure l’avevano saputo superare senza difficoltà, con estrema naturalezza.

Mentre riflettevo su questa condizione, riaffioravano alla mente tante facce, tante situazioni, tanti viaggi passati, e mi sono ricordato di una piazzetta a Caracas, vicino alla squallidissima pensione che avevo trovato come alloggio; in quella piazzetta, a dormire in strada tra i cartoni, c’era una donna anziana, simpaticissima, con cui mi fermavo a parlare ogni volta che passavo, e lei ogni volta mi aspettava con impazienza, era felice di vedermi, e me lo faceva sentire, mi raccontava episodi della sua vita, diceva che c’era qualcosa in me che le ricordava il suo primo amore, che aveva quasi il mio stesso nome, Ricardo, e mi raccontava di lei, di lui, di quand’erano ragazzi, e di una bellissima e suggestiva storia d’amore. Erano queste le cose che mi mancavano, ed era questo che in Cina probabilmente non avrei mai trovato, almeno non in quelle zone: l’eccezione più evidente, in quelle tre settimane, era stata con il poeta vestito di giallo, originario dello Yunnan, e forse non era un caso, forse in quella regione così remota l’impatto sarebbe stato diverso, secondo molti era l’area migliore da visitare proprio per il carattere dolce e affabile delle popolazioni locali, ma avevo dovuto escluderla, troppo lontana perché potessi aggiungerla al mio breve e improvvisato itinerario.

    Considerando di aver egregiamente concluso le mie attività di piccolo esploratore, ho passato la serata in ostello, con l’idea di andare a dormire presto e di risvegliarmi fresco e riposato, di buon mattino, per andare a prendere l’aereo. Invece il programma è stato tutt’altro, poiché, come accade spesso, le situazioni migliori prendono vita proprio l’ultima sera, e dopo aver chiacchierato un po’ al bar dell’ostello con alcuni ragazzi, siamo andati tutti nella stanza di una stravagante e affascinante australiana, una nostalgica hippy che passava la sua vita a viaggiare per il mondo; al gruppo s’è aggiunto poi un musicista danese con la sua chitarra, e n’è venuta fuori una situazione avvincente, molto piacevole, di quelle care a Stefano Rosso con “gli amici, la chitarra e lo spinello”: peccato solo che mancasse “la ragazza giusta che ce sta” per completare l’idillio e onorare la canzone a dovere.

La mattina dopo, distrutto dal sonno per non aver quasi dormito, giacché serate del genere non si riescono a lasciare a metà, ma animato da una buona dose d’emozione per l’attesa di sfrecciare a 430 chilometri orari, sono salito sul Maglev Train, il treno più veloce del mondo, diretto verso l’aeroporto. Era l’ultimo treno che mi restava da prendere, correvo speditamente verso la fine della mia avventura cinese, ma sereno e consapevole, perché, come diceva il saggio poeta di Guilin, dopo aver visitato un nuovo angolo di mondo, libero come un uccello che ha esplorato uno splendido bosco incantato, arriva il momento di tornare a casa, …o almeno, questa volta, per me andava così.

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